il manifesto, 24 marzo 2012
di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro
C’è un convitato di pietra nella vicenda dell’art. 18: si chiama pubblico impiego. Nonostante le smentite, gli auspici e perfino le minacce più o meno velate dei vari protagonisti della trattativa per ora conclusa, quel convitato è ancora lì, ed è destinato a restarci.
Vediamo perché. Fino vent’anni fa, il rapporto di lavoro dei pubblici impiegati era regolato dal vecchio testo unico del 1957: praticamente un mondo a parte per diritti, doveri, tutele. Dopo di allora c’è stata la cosiddetta “privatizzazione” e il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti è stato assimilato a quello dei dipendenti privati. Con molte specialità, è vero, ma con una simmetria essenziale. Poiché il testo unico approvato nel 2001 non prevede alcuna disposizione specifica in materia di licenziamenti individuali (gli artt. 33 e 34 dispongono solo in materia di “eccedenze di personale e mobilità collettiva”), l’unica norma che può essere applicata al riguardo risulta implicitamente dall’art. 51 del testo unico: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Tradotto, vuol dire che la sola disposizione che può essere invocata dal pubblico dipendente che sia stato ingiustamente licenziato è l’art. 18, naturalmente con le “successive modificazioni e integrazioni” che dovessero riguardarlo.
Beninteso, può anche darsi che un’espressa deroga per i dipendenti pubblici alla fine di questa tornata salti fuori. Ma è bene non illudersi: anche in quel caso la partita non sarebbe chiusa. Alcuni esponenti del Governo sono infatti convinti che la caduta dello spread dei nostri titoli rispetto ai Bund sia imputabile alla “credibilità” della politica di austerity dell’esecutivo. Essi cioè faticano ad ammettere che la temporanea tregua degli spread è stata in realtà provocata dall’inondazione di liquidità decisa dalla Banca centrale europea. Pervasi come sono dalla logica deflazionista della dottrina economica dominante, questi ministri credono che, se lo spread dovesse riprendere la sua corsa al rialzo, per riguadagnare la fiducia dei mercati finanziari non basterebbe una spending review, ma bisognerebbe affrontare l’ostacolo che rende più difficilmente comprimibile il volume totale di spesa pubblica: vale a dire, i dipendenti pubblici. E cosa di meglio, allora, di una “manutenzione” dell’art. 18 che confina il reintegro al solo caso che il giudice accerti che il dipendente non ha commesso il fatto o che per quest’ultimo il contratto collettivo prevede una sanzione conservativa? Cosa di meglio, cioè, della possibilità di una caccia ai “nullafacenti” con la certezza che, quand’anche si fosse sbagliato nella valutazione della gravità dell’inadempimento, si sarà pur sempre ottenuto un definitivo risparmio di spesa?
Può sembrare uno scenario apocalittico. Ma il pubblico impiego dipende dai trasferimenti statali, e non è meno soggetto alle tempeste dei mercati finanziari di quanto non sia il bilancio pubblico nel suo complesso (ne sanno qualcosa gli impiegati greci). Del resto, se appena si ha un’idea di come funziona una banale commissione sanitaria per la verifica delle condizioni degli invalidi civili, si capirà che la prospettiva che maturi una politica di licenziamenti nel settore pubblico è tutt’altro che implausibile. Quando l’imperativo è il risparmio, la persona non importa più. Non per niente si chiama lotta di classe.