Capitolo tratto dal volume di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa , Il Saggiatore, Milano, 2012.
Esiste una via d’uscita dall’incubo di una germanizzazione europea foriera di austerity, deflazione, depressione e mezzogiornificazione delle periferie? E’ giunto il tempo di azzardare una risposta a questo urgente interrogativo politico. Prima di affrontare l’argomento occorre tuttavia fare preliminarmente i conti con un ossimoro tentatore che svariati eredi del movimento operaio novecentesco hanno per lungo tempo considerato parte imprescindibile del loro credo politico.
Non si tratta, beninteso, del cosiddetto “liberismo di sinistra”, che a nostro avviso ha goduto di un successo relativamente superficiale e le cui contraddizioni interne sono sempre state troppo evidenti per immaginare che potesse tramutarsi in effettivo senso comune. In fondo, nel liberismo di sinistra riecheggia l’ideologia del sogno americano, di un ipotetico modello di capitalismo anglosassone temperato nel quale le opportunità possano sostituire le tutele del lavoro. Ma in questo modo il liberismo di sinistra finisce per esaltare le prerogative di una società inesistente. Volendo individuare un alter-ego cinematografico si potrebbe citare La ricerca della felicità, il film di Gabriele Muccino interpretato da Will Smith, padre tenero e responsabile che riesce a compiere una vertiginosa scalata dai sobborghi poveri di San Francisco ai vertici di una importante società finanziaria grazie a un notevole ingegno e a una fede incrollabile nelle proprie capacità. Storia vera e a suo modo struggente, fintamente critica e di fatto apologetica, ma in ogni caso statisticamente priva di qualsiasi rilevanza, considerato che gli Stati Uniti si situano ormai agli ultimi posti nelle classifiche OCSE sul tasso di mobilità sociale (assieme al Regno Unito e all’Italia). Il liberismo di sinistra è in fondo questo: un’apologia raffinata, ma senza agganci con la realtà.
L’ossimoro tentatore che intendiamo qui criticare è allora un altro: si tratta del “liberoscambismo di sinistra”, un concetto storicamente molto più radicato e insidioso, che opera all’interno di faglie logiche profonde, rinvenibili persino nel pensiero del Marx del 1848. Dimostrare che il liberoscambismo di sinistra è un controsenso, come vedremo, costituisce una sfida intellettuale decisiva per determinare il posizionamento degli eredi del movimento operaio novecentesco nella crisi in corso.
Svariate istituzioni, dal Fondo Monetario Internazionale alla Commissione Europea, richiamano da tempo l’attenzione sull’esistenza di un nesso tra l’apertura dei vari paesi ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente ridimensionamento degli indici di protezione dei lavoratori e della quota salari sul reddito nazionale. Altri economisti, come Dani Rodrik, si sono spinti oltre, evidenziando l’esistenza di un nesso tra apertura dei mercati e restringimento non soltanto dei diritti sociali ma anche dei diritti politici, vale a dire del perimetro di effettivo esercizio della democrazia.
Tali ricerche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana. Il caso FIAT è emblematico in tal senso. In questi mesi l’amministratore delegato di FIAT, Sergio Marchionne, ha insistito sul fatto che può ottenere a Detroit o in Serbia un valore del prodotto per ora di lavoro decisamente maggiore rispetto ai più modesti rendimenti degli impianti di Pomigliano o di Mirafiori. Il differenziale, si badi, è reale: esso non dipende dal grado di utilizzo della capacità ma al contrario lo determina. Per questo motivo Marchionne si è detto pronto a spostare le unità produttive all’estero a meno che in Italia non si affermi un nuovo modello di relazioni industriali, fondato sul recesso dai contratti nazionali, sulla eliminazione delle ultime sacche di resistenza sindacale e sulla conseguente possibilità di imprimere un’accelerazione al prodotto per unità di lavoro. Naturalmente Marchionne non è il solo ad adottare questa strategia. La minaccia continua delle delocalizzazioni è un elemento costitutivo dell’attuale regime di accumulazione del capitale, che scuote le fondamenta delle relazioni industriali di moltissimi paesi. La libertà di spostamento dei capitali oltretutto non agisce solo sui salari diretti o sulle condizioni di lavoro, ma anche sul welfare. Basti pensare agli effetti dell’apertura dei mercati sulla concorrenza fiscale tra paesi, e sulla conseguente crisi di finanziamento dello stato sociale. Questo tipo di concorrenza non viene praticata dai soli paradisi fiscali. Molti paesi ricchi la sostengono apertamente: per evitare le fughe di capitale all’estero si elargiscono sussidi alle imprese e sgravi ai possessori di ingenti ricchezze, e si recupera poi tramite i consueti tagli agli investimenti pubblici e alla spesa sociale.
I dati ci dicono insomma che siamo al cospetto di un dumping salariale e fiscale perpetuo, che da tempo alimenta quella che senza retorica può esser definita una “guerra mondiale tra lavoratori”, che nella crisi pare aver trovato un ulteriore fattore di accelerazione. E’ bene chiarire che si tratta di un dumping trasversale, che mette in competizione gli stessi paesi avanzati tra loro e che non può esser sintetizzato nella sola corsa al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi poveri. Il caso tedesco, come abbiamo visto, è in questo senso emblematico. La minaccia di trasferire interi spezzoni di produzione all’estero ha favorito le cosiddette “riforme del lavoro” in Germania, rendendo questo paese il centro nevralgico del dumping salariale europeo, con un divario tra produttività del lavoro e retribuzioni tra i più alti del mondo. Ma anche dagli Stati Uniti emergono oggi chiari segnali di compressione salariale e di eliminazione delle già risibili tutele del lavoro esistenti. Basti ricordare che i sussidi del governo federale americano e l’abbattimento del costo del lavoro in Chrysler hanno fortemente contribuito allo spostamento dell’asse strategico di FIAT verso gli Stati Uniti. Tutto ciò sta ad indicare che il dumping salariale e fiscale può partire anche dai paesi più avanzati del mondo.
Gli economisti sono da tempo ben consci di queste tendenze, e del rischio che esse alimentino perniciosi fenomeni di deflazione globale. Per questo motivo, anche all’interno del mainstream, è possibile rintracciare giudizi fortemente critici nei confronti della piena apertura dei mercati: dal giovane Franco Modigliani, a Paul Samuelson, a Paul Krugman, autorevoli studiosi ortodossi hanno sottolineato che in presenza di disoccupazione gli stessi teoremi del paradigma dominante favorevoli al libero scambio perdono qualsiasi rilevanza. Un risultato, questo, che nell’ambito del paradigma alternativo viene ulteriormente rafforzato.
Ebbene, in un simile scenario analitico, è interessante notare che sul piano politico solo il candido movimento di Seattle, pur tra mille contraddizioni e ingenuità, si è posto in questi anni il problema di elaborare un abbozzo di critica della globalizzazione. Al contrario, tra gli eredi della tradizione del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico. Dopo il crollo dell’URSS questa posizione ha caratterizzato in Europa soprattutto i socialisti, ma ha pure interessato frange della cosiddetta sinistra alternativa, delle realtà di movimento e degli stessi partiti comunisti. In Italia la svolta liberoscambista avvenne anche prima, probabilmente in concomitanza con le conclusioni di Giorgio Napolitano al convegno sul protezionismo ospitato nel 1976 da Rinascita.
Le cause di questa sudditanza verso il dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico. Vi sono ad esempio i sostenitori della vulgata secondo cui la libera circolazione dei capitali e delle merci favorirebbe i paesi poveri, mentre le restrizioni e i controlli garantirebbero le posizioni di privilegio dei paesi ricchi. Eppure, i dati segnalano che gli unici paesi in via di sviluppo che nell’ultimo ventennio hanno fatto registrare convergenze significative verso il reddito delle nazioni avanzate sono quelli che hanno realizzato aperture agli scambi graduali nonché sottoposte a rigidi controlli, come la Cina e l’India. Di fronte a evidenze economiche così controverse, i sostenitori del liberoscambismo hanno allora rilanciato sul piano politico, affermando che la totale apertura ai movimenti di capitale e di merci costituirebbe una garanzia per la pace. Ma anche sotto questo aspetto i dati non confortano: basterebbe ad esempio ricordare che la libera circolazione dei flussi finanziari raggiunse livelli eccezionali proprio alla vigilia della prima guerra mondiale.
Insomma, è come se alcuni degli eredi del vecchio internazionalismo operaio avessero completamente stravolto e deformato l’istanza universale delle origini, solidale e pacifista, arrivando a confonderla con l’apertura dei mercati, vale a dire con l’internazionalismo del capitale. Gli apologeti del libero scambio sembrano in questo senso aver dimenticato l’insegnamento di Keynes, che nel 1933 sostenne una tesi esattamente opposta alla loro: «…non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate da una grande concentrazione degli sforzi nazionali per conquistare i mercati esteri, dalla penetrazione, da parte delle risorse e dell’influenza di capitali stranieri, nella struttura economica di un paese e dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di paesi stranieri. Alla luce dell’esperienza e della prudenza, è più facile arguire proprio il contrario». Ma anche Marx, che protezionista non era, ironizzò sulle tesi di chi confondeva libero scambio, pace e fratellanza tra i popoli sostenendo che «chiamare fraternità universale lo sfruttamento a livello cosmopolitico è un’idea che avrebbe potuto nascere solo nella mente della borghesia». Se per Marx il libero scambio andava sostenuto, questa scelta era dovuta piuttosto alla sua forza devastatrice, alla sua capacità di agire da vettore della crisi, dello scontro sociale e della rivoluzione, che nel 1848 egli erroneamente considerava prossima.
La verità, dunque, è che gli attuali liberoscambisti di sinistra confondono globalizzazione del capitale e pace universale in maniera rozzamente pre-analitica, e su queste basi etichettano istintivamente il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie”, “di destra”, foriere in quanto tali di conflitti bellici. Questi “comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li abbiamo definiti, alimentano un equivoco colossale che si sta pagando caro, poiché esso impedisce di delineare un autonomo punto di vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori del libero scambio. Dopo la crisi del regime di sviluppo trainato dalla finanza, e fino a quando non si troverà un meccanismo propulsivo alternativo, questo scontro è destinato a durare, modificando profondamente gli assetti della divisione internazionale del lavoro. Di ciò si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti, estraniati dal dibattito. Basti notare, a questo riguardo, che mentre le destre prosperano da anni sulla spregiudicata proposta di “arrestare gli immigrati”, mai nessuna voce a sinistra si è levata per proporre di “arrestare i capitali”, vale a dire per riprendere e aggiornare la politica di controllo dei movimenti internazionali di capitale largamente praticata nel corso della seconda metà del Novecento.
In Italia è forse ancora una volta la vicenda FIAT che appare più sintomatica della crisi delle sinistre al cospetto della globalizzazione. Alcuni intellettuali e politici hanno etichettato Marchionne come “cattivo manager”, che investe poco e punta solo ad abbattere il costo del lavoro. C’è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse sono superficiali. In un certo senso potremmo considerarle simmetriche all’affrettato elogio del “capitalista buono” che gli veniva rivolto non moltissimo tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché a un manager viene concesso, questi minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove le opportunità di sfruttamento del lavoro e i relativi profitti sono maggiori. Anzi, data la storica posizione di debolezza della FIAT nel risiko in atto da tempo all’interno del settore automobilistico, non c’è da meravigliarsi se la strategia di Marchionne sia così rozza e si scarichi in modo così brutale sulle condizioni dei lavoratori.
Il problema quindi non può risolversi semplicemente giudicando il manager, ma andrebbe posto in termini storico-critici, guardando al sentiero di inviluppo del capitalismo nazionale iniziato negli anni Settanta del secolo scorso, e soprattutto andrebbe affrontato in termini politici. Nel luglio 2010, quando Marchionne ha fatto della minaccia di delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con il sindacato, l’allora Premier Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione». E in prossimità del referendum di Mirafiori, l’ex Presidente del Consiglio ha aggiunto che se Marchionne non avesse ottenuto dai lavoratori la flessibilità che chiedeva, la FIAT avrebbe fatto bene a spostarsi in altri paesi. Ebbene, è sintomatico di una profonda debolezza strategica che in tanti abbiano manifestato indignazione e sconcerto per le parole dell’ex Premier ma nessuna forza politica abbia indicato una chiara alternativa alla sua netta presa di posizione. Nessuno, per esempio, ha affermato che “un gruppo industriale non deve necessariamente esser lasciato libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”.
Ma la questione dell’apertura dei mercati non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Questi, come è noto, hanno prodotto in varie circostanze veri e propri stravolgimenti nei rapporti di forza interni ai paesi che li subivano. L’Italia, in particolare, è stata più volte bersaglio delle fughe di capitale ed è tornata ad esserlo di recente. Viene in tal senso da domandare: di fronte a nuovi attacchi speculativi contro i titoli italiani e degli altri dei paesi periferici, quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Accetterebbero in di subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992? O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto liberoscambista della Unione europea genera una deflazione competitiva palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo interno senza un profondo mutamento del medesimo?
In definitiva, è possibile individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e protezionisti? E’ ancora possibile colmare l’enorme ritardo delle sinistre di fronte alla possibilità di incunearsi nella crisi dei rapporti intercapitalistici europei e mondiali? La Storia ci insegna che varie opzioni sono state praticate in passato e possono essere in ogni momento riprese, aggiornate e sviluppate nella direzione di una esplicita tutela degli interessi del lavoro. Come vedremo nelle prossime pagine, si possono elevare argini contro le fughe speculative di capitale e si possono vincolare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard”, retributivo e del lavoro. L’apertura dei mercati, in altri termini, può esser condizionata all’adozione preventiva di misure di cooperazione internazionale finalizzate a contrastare la deflazione competitiva. Ma prima di approfondire le questioni tecniche, occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si sottopone a critica il “liberoscambismo di sinistra” di questi anni, se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, la “guerra tra lavoratori” proseguirà indisturbata in Europa e nel mondo, con effetti deflazionistici in grado di distruggere gran parte delle capacità produttive esistenti e di indurre ulteriori regressi democratici.
Note. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, la dottrina del libero scambio incontra obiezioni anche tra alcuni dei più autorevoli esponenti del mainstream. Come ricorda Paul Krugman, ad esempio, Paul Samuelson scriveva che «Senza piena occupazione e con un prodotto interno netto sub-ottimale, tutti i deprecati argomenti mercantilisti si rivelano validi» (Theoretical notes on trade problems, in Review of Economics and Statistics, 1964; citato in P. Krugman, “L’impareggiabile Samuelson”, lavoce.info, 16 dicembre 2009). Marcello De Cecco ha inoltre fatto notare che autorevoli economisti italiani di orientamento ortodosso, tra i quali anche il premio Nobel Franco Modigliani, hanno per lungo tempo espresso notevole scetticismo nei confronti dell’apologia del libero scambio (“Gli economisti italiani e l’economia internazionale del Novecento”, Rivista Italiana degli Economisti, 2010). Riguardo poi al potenziale conflitto tra apertura dei mercati ed esercizio della democrazia, si veda Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente, Laterza 2011. Sul nesso tra apertura dei mercati e declino delle quote salari, si veda European Commission, Employment in Europe, 2007, cap. 5; e Paul Krugman, “Trade and wages, reconsidered”, Brookings Papers on Economic Activity 2008. Nel campo degli approcci alternativi, una critica del liberoscambismo è contenuta nel volume a cura di Ian Steedman, Fundamental issues in trade theory, Macmillan 1979. Le citazioni di Marx sul tema, riportate nel volume, sono tratte dal Discorso sul libero scambio, Deriveapprodi 2002; le citazioni di Keynes sono tratte dal saggio Autosufficienza nazionale, del 1933.
Capitolo tratto dal volume di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa , Il Saggiatore, Milano, 2012. La riproduzione è consentita citando la fonte.