ItaliaOggi, 12 febbraio 2014
Euro, disegnato per la Germania: in cinque anni l’occupazione tedesca cresciuta di 1,5 mln, nei paesi periferici calata di 6 milioni. Il disastro non si può evitare col buonismo comunitario. Sì a un “piano B” di uscita dall’euro ma attenzione ai gattopardi del liberismo
L’Italia ha bisogno di un “piano B” per uscire dall’euro, ma bisogna intendersi su come intraprendere questo percorso. Parola di Emiliano Brancaccio, docente all’Università del Sannio, uno di quegli economisti ai quali non si può addebitare la colpa di non aver previsto la crisi, viste le sue ricerche del decennio scorso che avanzavano dubbi sulla tenuta dell’eurozona. Nel settembre 2013 Brancaccio ha promosso un “monito” pubblicato sul Financial Times e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica mondiale (www.theeconomistswarning.com), dove si legge che le politiche di austerity portano dritto all’uscita dall’euro. Gli abbiamo chiesto un parere sul manifesto del prof. Paolo Savona, che propone un “piano B” di uscita dall’eurozona, sia pure come ipotesi estrema.
Professor Brancaccio, quali sono i motivi di questa avversità crescente verso la moneta unica?
“Negli auspici dei padri fondatori, l’Unione monetaria europea avrebbe dovuto creare più collegialità nelle decisioni di politica economica, in modo da arginare il potere soverchiante della Germania unificata. Oggi sappiamo che quelle speranze erano vane. Allo scoppio della crisi mondiale l’eurozona si è rivelata un vestito disegnato su misura per la sola economia più forte, quella tedesca. Dal 2008 al 2013 la Germania ha visto crescere l’occupazione di un milione e mezzo di unità, mentre Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda hanno perso oltre sei milioni di posti di lavoro. In uno scenario simile l’insofferenza politica verso le istituzioni europee è scontata, ed è pure destinata ad aumentare”.
Quali sono i principali “mali” dell’euro?
“Penso che il problema stia nell’assetto complessivo dell’Unione, nel suo orientamento liberista e liberoscambista e nella sua vocazione all’austerity, non semplicemente nella moneta unica. Tuttavia è vero che uno squilibrio monetario interno esiste. Uno dei motivi è che in questi anni la Germania ha attuato una ferrea politica di competizione salariale. Dal 1999 ad oggi in Germania i salari monetari sono aumentati di appena il ventidue percento, contro un aumento medio del trentanove percento nell’eurozona. La conseguenza è che la Germania costringe gli altri paesi membri a partecipare a una feroce gara al ribasso relativo dei salari e dei prezzi. Questa gara avvantaggia ulteriormente l’economia tedesca e i suoi satelliti, ma fa sprofondare il resto dell’Unione in una depressione generalizzata dei redditi e dell’occupazione”.
In questo quadro, lei ritiene percorribile la strada di uscita dall’euro?
“Guardi, abbiamo provato in tanti a invocare una riforma dell’Unione ma finora non si è fatto praticamente nulla. La stessa strategia di salvataggio messa in atto da Draghi è contraddittoria: la Bce eroga liquidità ai Paesi più deboli ma in cambio chiede austerity, riduzioni salariali, e annuncia pure la chiusura di molte banche situate soprattutto in quei Paesi. Questo non farà altro che accentuare i divari rispetto alla Germania. Una svolta reale negli indirizzi di politica economica europea non si intravede, ed è insensato pensare che si possa fronteggiare questo disastro con altre manciate di vuota retorica europeista. Con divergenze così accentuate l’eurozona prima o poi esploderà, volenti o nolenti”.
Cosa pensa delle tesi del professor Savona su un “piano B” di uscita dall’euro, che MF e ItaliaOggi hanno rilanciato sotto forma di “manifesto”, e che però, in prima istanza, punta su un massiccio piano di privatizzazioni realizzate e non più solo declamate?
“Che una possibilità di uscita debba ormai essere contemplata è questione che attiene al più elementare alfabeto delle relazioni internazionali. Coloro i quali si ostinano ad affermare che ai tavoli delle trattative europee ci si debba sedere legandosi le mani ed escludendo a priori un piano di uscita, vorrebbero presentarsi al grande pubblico come persone di buon senso. In realtà la loro posizione è ormai scarsamente realistica, e a questo punto mi sembra anche poco responsabile: proprio la sensazione che ci si trovi in un vicolo cieco alimenta il nazionalismo più retrivo e xenofobo. Detto questo, credo di pensarla diversamente dal Prof. Savona…”.
Cosa non condivide?
“Per esempio, non credo che altre privatizzazioni siano la soluzione. Questo è un paese con scarsa memoria, ma dovremmo ricordare tutti che la crisi del 1992 venne affrontata proprio con un massiccio piano di privatizzazioni e dismissioni all’estero, le cui dimensioni costituirono un record a livello mondiale. Oggi sappiamo che quella operazione fece molti danni: diede luogo a una riduzione del debito pubblico solo temporanea, portò ad aumenti dei prezzi in molti settori come denunciato dalla stessa Corte dei Conti, e determinò un indebolimento del sistema produttivo nazionale, che paghiamo ancora oggi. Né credo che la soluzione alla crisi risieda nei tagli alla spesa pubblica totale che Savona pure invoca. Nell’apparato statale ci sono ancora diverse sacche di spreco ma sono ancora di più i settori chiave in cui si registra una tremenda carenza di risorse, che pregiudica gli stessi obiettivi di modernizzazione della macchina statale. Del resto, nel suo complesso la spesa pubblica italiana rispetto al Pil è appena di un punto al di sopra della media europea, e al netto degli interessi si situa persino al di sotto della media”.
Il professor Savona, a dire il vero, punta sulla privatizzazione degli asset pubblici non utilizzati, o non adeguatamente utilizzati, per poter abbattere lo stock del debito che ha raggiunto livelli tali da non consentire nessuna credibile manovra di risanamento economico. Ma andiamo avanti. Nel “monito degli economisti” che lei ha promosso si parla di modi alternativi di uscita dall’euro. Lei stesso ha più volte sostenuto la necessità di una uscita “da sinistra”, opposta a una cosiddetta uscita “da destra”. Ci spieghi questa distinzione.
“Proviamo per un attimo a mettere da parte queste etichette e stiamo al merito. La crisi è stata innescata, tra le altre cose, da quelle politiche liberiste e liberoscambiste che negli anni passati hanno determinato una progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari e dei sistemi bancari. Purtroppo, fino ad oggi non ci sono stati effettivi ripensamenti, non si è posto alcun rimedio agli effetti deleteri di queste politiche. Il mio timore, dunque, è che si stia facendo largo una strategia di gestione della crisi europea che personalmente ho definito “gattopardesca”, e che consiste nell’obiettivo di cambiare tutto, magari anche la moneta unica, pur di non cambiare praticamente nulla, cioè pur di non mettere in discussione le politiche degli anni passati. In questa strategia gattopardesca rientra pure l’idea secondo cui per uscire dalla crisi basterebbe abbandonare l’euro e affidarsi alle libere fluttuazioni delle monete sul mercato dei cambi. Questo modo di affrontare la crisi è sbagliato, perché si affida ancora una volta al mantra del mercato, avvantaggia la speculazione finanziaria, rischia di favorire una svendita degli istituti bancari nazionali e può deprimere ulteriormente il potere d’acquisto dei salari. Ecco perché molti economisti suggeriscono una modalità alternativa di gestione della crisi dell’eurozona, che dovrebbe tra l’altro consistere nel ripristino dei controlli alle acquisizioni estere e ai movimenti internazionali di capitale: ossia, nella messa in discussione non solo della moneta unica ma anche del mercato unico, e dell’assetto complessivo dell’Unione europea. Insomma, l’euro è senza dubbio parte del problema, ma le scorciatoie non esistono: se non sottoponiamo a una critica più generale le politiche liberiste degli anni passati, dalla crisi non usciremo”.
Intervista di Giovanni Bucchi
Intervista pubblicata su ItaliaOggi del 12 febbraio 2014. La riproduzione è consentita citando la fonte.