l’Espresso online, 18 marzo 2014
Non gliene passa una l’economista critico Emiliano Brancaccio a Matteo Renzi. La riforma del lavoro, «sarà un buco nell’acqua», perché è dimostrato «che più precarizzazione non vuol dire più occupazione». Anzi, «la scommessa sulla corsa al ribasso salariale può portare l’intera unione alla deflazione, e la deflazione rischia di aggravare la crisi del debito». Brancaccio però è sicuro che Renzi terrà fede alle sue promesse, nonostante le rassicurazioni date ad Angela Merkel sui vincoli del debito, a cominciare dagli ottanta euro in busta paga. «Sforando di qualche decimale», però, il vincolo che pubblicamente ha assicurato di rispettare, perché quello che «si stia profilando è lo scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro».
Le riforme immaginate da Renzi, lavoro in cima, hanno convinto la Germania. E’ questo il cuore del vertice, non più una revisione dell’austerità?
«Mi sembra che in realtà si stia profilando lo scenario che avevamo previsto nel “monito degli economisti” , pubblicato lo scorso settembre sul Financial Times. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene messa almeno temporaneamente ai margini della discussione. Non a caso Merkel non si è concentrata molto sui vincoli di bilancio. Piuttosto ha insistito su una nuova dottrina, che potremmo chiamare della “precarietà espansiva”: l’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione».
Dal tono non sembra molto convinto…
«Il rischio è che si passi da una vecchia a una nuova illusione. Già la tesi della austerità espansiva non aveva riscontri empirici. Ed infatti, invece di favorire la ripresa, l’austerity ha solo alimentato la depressione. Ma nemmeno la nuova dottrina trova conferme nei dati: le evidenze empiriche, dell’Ocse, come del Fondo monetario internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione. I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero».
Dal vertice Renzi-Merkel oltre al plauso sulle riforme è arrivata la conferma del fatidico limite del 3 per cento del deficit pubblico in rapporto al Pil. Rispettando quel vincolo Renzi potrà tenere fede alle sue promesse?
«A fine maggio gli ottanta euro promessi in busta paga ci saranno. Non è quello il punto. Il punto è che effettivamente in questo preciso momento l’Italia si trova già oltre il 3 per cento, come ha notato la stessa Merkel».
Renzi dice però che chiuderà il 2014 con un deficit al 2,8 per cento. Lo ritiene verosimile?
«La scommessa di Renzi – rispettare il vincolo e abbassare le tasse – si basa evidentemente sulla possibilità che il Pil aumenti, che sia cioè il denominatore ad aumentare facendo scendere il rapporto».
E’ scettico ancora una volta.
«Mi sembra una scommessa ardimentosa. L’effetto espansivo che Renzi ha previsto di ottenere con questa riduzione delle tasse sarà in realtà modesto, e verrà in parte mitigato dalla diminuzione della spesa pubblica. La spending review su cui tutti puntano può avere un effetto contrario agli ottanta euro in busta paga, soprattutto quando si tagliano spese sensibili, come ad esempio il trasporto pubblico».
A proposito di spending review: Palazzo Chigi dice che il piano Cottarelli non è definitivo, ma Renzi conferma di volerne ricavare sette miliardi già per il 2014. Cottarelli oggi dice che saranno 5, anche partendo da maggio. In una precedente audizione aveva detto che “prudenzialmente”, in metà anno, non sarebbero stati più di 3. Chi ha ragione?
«Per il 2014 il taglio della spesa sarà certamente minore rispetto a quanto previsto da Renzi. E’ chiaro quindi che siamo di fronte a un buco di bilancio. Anzi, in un certo senso dovremmo augurarcelo. Anche perché, a prescindere dalle cifre, non esiste un programma di revisione della spesa che sia credibile se realizzato in un semestre. La storia ci insegna che le revisioni di spesa condotte in fretta e furia si trasformano in tagli lineari brutali che colpiscono sempre i soggetti più deboli e non aiutano certo la crescita del Pil».
Sta dicendo che, secondo lei, Renzi ha già previsto di fare debito?
«Al di là delle frasi di circostanza tipiche un vertice europeo, può darsi che si stia pensando a uno sforamento di qualche decimale. Penso insomma che in Europa siano iniziate le prove generali per l’annunciato scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro. Il problema, come ho detto, è che anche la nuova dottrina della “precarietà espansiva” rischia di rivelarsi un altro buco nell’acqua».
Se così fosse, quali sarebbero le implicazioni per l’eurozona?
«Dietro la nuova dottrina vi è l’idea che l’intera eurozona si salva solo se i paesi periferici, a colpi di precarizzazione del lavoro, riescono ad abbattere i salari, i costi e i prezzi. In questo modo si dovrebbe colmare il divario di competitività rispetto alla Germania e si dovrebbero quindi riequilibrare i rapporti di credito e debito all’interno dell’Unione. La Storia tuttavia ci insegna che in genere questo meccanismo non funziona. Esso infatti impone ai soli paesi debitori il peso del riequilibrio. In questo modo l’intera Unione viene trascinata in una corsa salariale al ribasso che può determinare una deflazione generalizzata e una nuova crisi del debito. E’ la vecchia lezione di Keynes, ma ieri a Berlino sembravano averla dimenticata».
Intervista di Luca Sappino
Intervista pubblicata su l’Espresso online del 18 marzo 2014.