l’Espresso online, 12 giugno 2015
“L’Italia non è al sicuro: l’Eurozona è insostenibile. E invece di fermare i migranti bisognerebbe fermare i capitali a caccia di vantaggi fiscali”. Parla l’economista Emiliano Brancaccio
di Luca Sappino
«Se le destre propongono di arrestare i flussi di immigrati, contro di esse bisognerebbe proporre di arrestare i movimenti indiscriminati di capitale a caccia di vantaggi fiscali, bassi salari e alti profitti». Emiliano Brancaccio parla con l’Espresso della crisi dell’eurozona, tutt’altro che risolta. «Letta vi ha detto che per lui l’uscita della Grecia non è una prospettiva realistica? Nel breve termine può essere che abbia ragione», spiega l’economista critico, tra i promotori del “monito” pubblicato già nel 2013 sul Financial Times dove si prevedeva, a causa delle politiche di austerity, la deflagrazione dell’eurozona: «Ma i mercati continuano invece a scommettere sull’uscita dall’Euro». E l’Italia, per Brancaccio, dunque, non deve sentirsi al sicuro, nonostante i dati positivi ripresi dal governo: «Esaltarsi per dati mensili è grottesco. Anche fossero confermate le previsioni più ottimistiche, a fine anno avremmo un milione di posti di lavoro in meno del 2008». Andiamo nel dettaglio, con Brancaccio, soffermandoci anche sul successo di Salvini alle elezioni: «La Lega, come gli altri movimenti di destra, cavalca la lotta all’immigrazione solo come diversivo per evitare di affrontare le vere cause della crisi economica e sociale. Anzi Salvini condisce la xenofobia con una una spruzzata di liberismo fiscale: la flat tax, vale a dire un’aliquota unica per tutti, ricchi o poveri che siano». Da sinistra, insomma, non bisognerebbe certo rincorrerlo: «Bisognerebbe iniziare a delineare un piano ragionevole per gestire un eventuale tracollo dell’unione monetaria. E se le destre propongono di arrestare i flussi di immigrati, contro di esse bisognerebbe proporre di arrestare i movimenti indiscriminati di capitale a caccia di vantaggi fiscali, bassi salari e alti profitti».
Dice Enrico Letta, in una recente intervista all’Espresso: «Non credo che l’uscita della Grecia dall’euro sia una prospettiva realistica». È così?
«Nel breve termine può darsi che abbia ragione. Ma i titoli greci con scadenza tra due anni si stanno scambiando allo stratosferico tasso d’interesse del venticinque percento. È il segno evidente che sui mercati si continua a scommettere sul futuro default della Grecia e quindi sulla possibile uscita del paese dall’Euro. Questa previsione è avvalorata dall’estenuante trattativa sul debito greco. Le istituzioni europee costringono il governo Tsipras in una contesa che non affronta i problemi di sostenibilità del debito: al massimo li rinvia e sotto certi aspetti li aggrava».
L’economista Francesco Giavazzi sostiene che a questo punto è meglio che i greci abbandonino l’euro: a suo avviso il resto dell’Unione non ne risentirebbe.
«Quelle di Giavazzi suonano un po’ come le ultime parole famose, simili a quelle che pronunciò dopo il crollo di Lehman… In realtà la storia dei regimi monetari ci dice che l’uscita di un paese genera effetti a catena su tutti gli altri».
Il ministro Padoan, però, sostiene che l’Italia è al sicuro rispetto agli effetti di un’eventuale “Grexit”. È così?
«Chi pensa che la crisi della Grecia rappresenti un fenomeno circoscritto si sbaglia: non si tratta di una mela marcia in un sistema altrimenti sano, è il sistema che non funziona. Come può reggere, d’altronde, un’unione monetaria in cui il paese egemone, la Germania, per oltre un decennio fa concorrenza sui salari allo scopo di guadagnare competitività e accumulare surplus verso l’estero? È un meccanismo che trascina tutti nella deflazione e nella crisi, a cominciare dai paesi più deboli del Sud Europa, inclusa l’Italia».
Però la Spagna sta andando bene e in Italia l’occupazione tra marzo e aprile è ripartita. È il vanto di Renzi.
«Esaltarsi per un picco mensile dell’occupazione è semplicemente grottesco. Se prendiamo le proiezioni annuali della Commissione europea, notiamo che alla fine del 2015 l’occupazione in Italia dovrebbe crescere di circa centotrentamila unità rispetto all’anno precedente. È una previsione ottimistica, ma se anche fosse confermata ci troveremmo comunque con un milione di posti di lavoro in meno in confronto al 2008. Anche la celebrata ripresa spagnola è modesta: alla fine dell’anno avranno due milioni e mezzo di occupati in meno rispetto al 2008. Nel Sud Europa la crisi è stata devastante: negli ultimi sette anni le insolvenze delle imprese sono esplose, con aumenti del 148 percento in Italia e del 153 percento in Spagna. Questi numeri segnalano il rischio di nuove crisi bancarie nell’eurozona. Una crisi che le istituzioni europee, per i loro conflitti interni, non sapranno gestire. Draghi, che pure ha annunciato un aumento di liquidità per le banche greche, è come un pistolero davanti alle belve della speculazione: da tre anni agita la sua arma per impaurirle, ma quando capiranno che è stato dotato di pochi colpi in canna saranno guai».
In questo scenario diverse forze politiche battono sull’idea di uscire dall’euro, con discreto successo. La Lega di Salvini, ad esempio, intercetta gli istinti di un certo elettorato, soprattutto sulla lotta all’immigrazione, ma cavalca molto anche l’euroscetticismo.
«I partiti che mescolano xenofobia e antieuropeismo mietono consensi in tutto il continente. La Lega oltretutto condisce la sua piattaforma politica con una spruzzata di liberismo fiscale: la flat tax, vale a dire un’aliquota unica per tutti, ricchi o poveri che siano. È la tipica risposta di destra alla crisi della globalizzazione e dell’unificazione europea».
Il Pd di Renzi tuttavia continua a ritenere Salvini un avversario in fin dei conti facile: un estremista che può crescere ma non può vincere. Pensa che stiano sottovalutando il problema?
«Penso che con gli ultimi, nefasti provvedimenti sul lavoro e sulla scuola il Pd abbia perso molti consensi e che il suo primato sarà attaccabile da più parti. Ma la questione principale a mio avviso è un’altra. Gli slogan di Salvini e degli altri leader delle destre xenofobe si stanno diffondendo ben oltre il perimetro dei loro partiti. Sarkozy che arranca dietro Le Pen proponendo una messa in discussione degli accordi di libera circolazione delle persone in Europa, e Cameron che insegue l’Ukip sul fronte della lotta all’immigrazione, sono prove del fatto che c’è una tendenza generale a sdoganare i temi delle destre reazionarie. Una tendenza che ormai investe i partiti dell’establishment europeo e lambisce anche il Pd e i socialisti».
E invece, quale dovrebbe essere la risposta della sinistra, sull’Europa?
«Gli eredi delle sinistre novecentesche sembrano ancora legati a una retorica europeista e globalista che li rende incapaci di interpretare l’attuale fase storica. Si continua a rimestare lo slogan inverosimile degli “Stati Uniti d’Europa” quando invece bisognerebbe iniziare a delineare un piano ragionevole per superare l’assetto insostenibile dell’Unione monetaria europea. Ma i problemi non riguardano solo il futuro dell’eurozona: è sul tema più generale della globalizzazione che le sinistre ragionano in base a schemi superati dagli eventi».
Lei cosa propone?
«Bisognerebbe riconoscere che stiamo attraversando una fase di crisi dell’unificazione europea e della stessa globalizzazione. E bisognerebbe avviare un lavoro collettivo per cercare di affrontarla in termini opposti e speculari a quelli delle destre xenofobe. Se le destre propongono di arrestare i flussi di immigrati, contro di esse bisognerebbe proporre di arrestare i movimenti indiscriminati di capitale a caccia di vantaggi fiscali, bassi salari e alti profitti. Ed ancora: le destre invocano misure protezioniste per favorire interessi capitalistici particolari? Per fronteggiarle bisognerebbe proporre di condizionare i movimenti generali di capitali e di merci al rispetto di determinati standard sociali e del lavoro. Ossia, bisognerebbe introdurre limitazioni agli scambi verso quei paesi che, riducendo gli standard sociali e salariali interni, alimentano la competizione internazionale al ribasso, mentre si dovrebbe rafforzare la cooperazione tra i paesi che sono disposti a contrastare il dumping sociale e la deflazione».
Non è però una proposta compatibile con l’euro e con i trattati europei di libero scambio.
«Ovviamente no: una parte dei trattati andrebbe riscritta con chi ci sta, e sarebbe anche ora. Ma non è un’idea del tutto nuova. Trae spunto dall’articolo VII dello statuto del Fmi e dai contributi in tema di “standard del lavoro” della Organizzazione Internazionale del Lavoro. Potremmo chiamarla “standard monetario sociale”, una possibile bussola per interpretare in chiave moderna e progressista questi tempi durissimi».
Insomma: mentre le destre vogliono bloccare l’immigrazione, lei propone di bloccare i movimenti indiscriminati di capitale. Esatto?
Certo. Sarebbe anche un modo per riportare razionalità nel dibattito politico. La libera circolazione dei capitali scatena una competizione al ribasso tra lavoratori molto più intensa di quella che si verifica tra nativi e immigrati. La lotta all’immigrazione è solo un diversivo per evitare di affrontare le vere cause della crisi economica e sociale.
Pensa che oggi esistano forze politiche pronte ad accogliere idee del genere?
«Se tra gli eredi più o meno degni delle sinistre novecentesche non maturerà una visione maggiormente realistica dell’attuale fase delle relazioni internazionali, l’unica risposta alla crisi della globalizzazione e dell’unificazione europea avrà un chiaro marchio di destra: una miscela perversa di liberismo e xenofobia, il futuro peggiore possibile».