Corriere della Sera – Mezzogiorno Economia, 23 gennaio 2017
L’economista: “Non ci serve un protezionismo che tuteli imprese decotte. Piuttosto, avremmo bisogno di meccanismi moderni per scoraggiare le rovinose politiche di dumping sociale che hanno contribuito alla crisi e agli squilibri tra aree forti e aree deboli”
Intervista di Emanuele Imperiali
Nel precedente numero di “Mezzogiorno Economia” abbiamo esaminato alcuni fattori che limitano lo sviluppo del nostro meridione. In particolare, ci siamo soffermati sui ritardi della pubblica amministrazione. In che modo bisognerebbe affrontare il problema dell’inefficienza degli apparati pubblici nel Sud Italia? La politica dei cosiddetti “tagli agli sprechi” può essere una soluzione? Lo abbiamo chiesto a Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica ed Economia internazionale presso l’Università del Sannio a Benevento e autore di numerose ricerche sugli squilibri economici tra le diverse aree dell’Unione europea.
Gli sprechi esistono – risponde Brancaccio – ma la ricetta degli tagli alla spesa pubblica banalizza un problema complesso.
Per quale ragione?
Gli studi in materia rivelano che i ritardi del settore pubblico rappresentano non semplicemente una causa ma anche un effetto dei ritardi dello sviluppo capitalistico di una regione. Le inefficienze della macchina amministrativa rappresentano cioè uno specchio riflesso dell’arretratezza del tessuto produttivo locale. Solo l’impresa moderna ha la reale intenzione e la forza di imporre sul proprio territorio una pubblica amministrazione moderna. Un capitalismo arretrato, invece, tende ad adagiarsi e talvolta persino a rafforzare quei legami con l’amministrazione pubblica che si basano su prebende e privilegi. Se dunque non si affronta l’annoso problema della modernizzazione capitalistica del Sud, è illusorio immaginare una profonda ristrutturazione delle amministrazioni meridionali.
A proposito di capitalismo arretrato, un altro fattore di rallentamento dello sviluppo su cui ci siamo soffermati nello scorso numero è il lavoro nero: in Italia tre milioni di lavoratori, di cui ben un milione nel Mezzogiorno, sono senza un regolare contratto. La soluzione proposta dal governo è stata quella dei “voucher” che tuttavia, alla fine, sembra avere apportato più problemi che vantaggi. Secondo lei, è possibile migliorare lo strumento dei “voucher” senza per forza di cose cancellarli?
La ricerca scientifica sulle cause del lavoro nero fornisce risultati controversi. Studi dell’Organizzazione internazionale del lavoro, per esempio, mostrano che rendere i contratti più flessibili non favorisce la riduzione del sommerso. Non credo che mantenere i “voucher” possa contribuire al rilancio economico del paese, né penso che possa aiutare il Sud a ridurre le sacche di lavoro irregolare.
Quali sono allora le cause principali della mancata modernizzazione capitalistica e dei ritardi della crescita nel nostro Mezzogiorno?
Da molti anni le autorità europee e nazionali assecondano meccanismi di mercato che tendono a favorire le aree centrali dello sviluppo capitalistico a scapito delle periferie. Le aree storicamente più deboli, come il Sud Italia, soffrono più di altre gli effetti di questa “politica di divergenza”.
Lei ha recentemente presentato al Parlamento europeo una proposta di “Standard sociale” sugli scambi internazionali, che potrebbe favorire anche il rilancio produttivo del Sud Italia e delle altre periferie dell’Unione. Ci spiega in che modo?
E’ una proposta di revisione delle relazioni economiche e finanziarie tra paesi, sia fuori che dentro l’Europa, basata sul ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, e se necessario anche di merci. La principale novità del “social standard” consiste nel fatto che i controlli sui movimenti di capitale e di merci dovrebbero essere introdotti verso quei paesi che praticano politiche di concorrenza al ribasso sui salari, sul fisco, sui diritti sociali e ambientali, e che per questo accumulano squilibri commerciali verso l’estero. La piena libertà di circolazione di capitali e al limite di merci verrebbe in questo modo ammessa solo tra quei paesi che aderiscono a un comune “standard sociale”. Se una soluzione del genere venisse adottata si creerebbero le premesse per un rilancio produttivo delle periferie dell’Unione, incluso il Sud Italia.
Un nuovo meridionalismo passa dunque per un nuovo protezionismo? Ha ragione, allora, il presidente USA Trump?
Non ci serve un protezionismo che tuteli imprese decotte. Piuttosto, avremmo bisogno di meccanismi moderni per scoraggiare le rovinose politiche di “dumping sociale” che in questi anni sono state adottate da troppi paesi concorrenti, sia fuori che dentro l’Unione europea, e che hanno contribuito non poco ad alimentare la crisi economica e gli squilibri tra le aree forti e le aree deboli del continente.
Intervista pubblicata nell’inserto “Mezzogiorno Economia” del Corriere della Sera del 23 gennaio 2017 (pag. IV).