di Emiliano Brancaccio (Pubblico, 6 novembre 2012)
L’aspetto più inquietante dell’ultimo rapporto ISTAT non risiede nella notizia che la disoccupazione in Italia ha fatto registrare l’ennesimo picco. L’allarme principale riguarda il 2013: per l’anno prossimo l’istituto nazionale di statistica prevede ancora recessione e un incremento ancor più accentuato dei senza lavoro. L’ISTAT conferma così lo scenario depressivo che era stato già evocato ad ottobre dal Fondo Monetario Internazionale, con una pesante revisione al ribasso delle previsioni future di crescita della zona euro e soprattutto dell’Italia. Il quadro che si prospetta è dunque dei più funesti, ma in fondo non dovrebbe meravigliare. Due anni e mezzo fa, ai primi cenni della crisi europea, duecentocinquanta economisti pubblicarono una “Lettera” che lanciava l’allarme sui pesantissimi effetti recessivi che le politiche di austerity avrebbero determinato. Un appello profetico, che rimase inascoltato. Il risultato è che oggi precipitiamo nella depressione senza nemmeno intravederne il pavimento.
Le stime degli istituti di ricerca appaiono particolarmente impietose per il governo italiano. Esse ci dicono che tra il professor Monti, che con voce sempre più incerta tuttora favoleggia su una fantomatica «luce in fondo al tunnel», e la signora Merkel, che brutalmente ci comunica che non usciremo dalla crisi prima di cinque anni, la cancelliera tedesca appare molto più in sintonia con la realtà dei dati economici.
Del resto non è la sola, dalle sue parti: a Berlino in tanti ormai riconoscono che le politiche di taglio della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale deprimeranno i redditi e l’occupazione molto più a lungo e più intensamente di quanto si fosse disposti ad ammettere qualche mese fa. Sbagliano però i commentatori che interpretano questa presa d’atto della Merkel come un sintomo di ripensamento sugli effetti dell’austerity. Questa speranza è diffusa soprattutto tra le file della sinistra francese e nostrana, ma sembra mal riposta. Gli europeisti speranzosi dovrebbero infatti rammentare che questa crisi ricade in modo asimmetrico sul continente. La Germania la subisce in misura molto meno accentuata di noi e degli altri paesi del Sud Europa, e per molti versi riesce persino a sfruttarla a proprio vantaggio. Basti notare che dal 2007 ad oggi in Italia abbiamo perso settecentomila posti di lavoro, mentre l’economia tedesca ha fatto registrare un milione e seicentomila nuovi occupati. Anche la distribuzione sul continente dei fallimenti aziendali riflette questa profonda asimmetria europea. Ma soprattutto, sembra sfuggire ai più che la crisi sta determinando una caduta del valore relativo dei capitali industriali e bancari dei paesi del Sud Europa. I grandi possessori di liquidità, in buona parte situati in Germania, potranno sfruttare in misura crescente questi deprezzamenti per fare shopping a buon mercato alle nostre latitudini, col risultato di depauperarle ulteriormente.
Insomma, le autorità tedesche e i gruppi d’interesse prevalenti in Germania leggono i dati della crisi con più onestà del nostro establishment, ma non sembrano per questo intenzionati a modificare l’orientamento della politica economica europea. La Merkel e i suoi ammettono che la traversata nel deserto della crisi sarà lunga. Essi tuttavia sembrano concepirla come una sorta di passeggiata “purificatrice”, che lascerà un bel po’ di vittime per strada ma che proprio per questo favorirà il processo di egemonizzazione tedesca dell’economia europea. Al di là delle scaramucce nel consiglio direttivo della Bce, lo stesso Draghi ha assecondato questa visione, considerando la minaccia dello spread il più efficace propulsore delle “riforme” imposte da Berlino. Di fronte a queste poco rassicuranti evidenze, l’europeista speranzoso tuttora confida in una svolta keynesiana guidata dai socialdemocratici tedeschi. Ma a ben guardare nemmeno questi sembrano desiderosi di prender le distanze dall’attuale concezione “imperiale” della ristrutturazione europea. Anzi, talvolta tendono ad attaccare la Merkel proprio sul versante del “rigore”, esigendo dalla cancelliera una fedeltà se possibile ancor più cristallina alla dottrina dell’austerity.
Forse, anziché limitarsi a sperare, la sinistra europeista potrebbe iniziare a interrogarsi. Per esempio: se le buone intenzioni di riforma dell’Unione europea indicate nella “carta d’intenti” delle primarie si scontreranno con l’indifferenza dei compagni e amici tedeschi da un lato e con la realtà di una crisi produttiva e occupazionale senza freni dall’altro, la sinistra italiana farà bene a rassegnarsi o dovrà piuttosto cominciare a elaborare una strategia di uscita dalla moneta unica e una revisione critica del mercato unico europeo? La questione, per quanto scomoda, inizia a farsi urgente.
Emiliano Brancaccio
Articolo apparso sul quotidiano Pubblico del 6 novembre 2012. La riproduzione è consentita citando la fonte.