Il mio primo intervento in televisione risale al giugno del 2003. Avevo pubblicato un articolo dal titolo “Lo strano caso del prof. Ichino”, dedicato agli effetti della precarizzazione del lavoro. Nello scritto, riprendendo gli esiti dei primi test in materia effettuati dall’OCSE, segnalavo che essi contraddicevano l’idea di Pietro Ichino secondo cui una maggiore flessibilità dei contratti avrebbe ridotto la disoccupazione. Ichino replicò, rettificando la sua posizione. Lo scambio fu ripreso da qualche giornale e pochi giorni dopo, in occasione del referendum sull’articolo 18, mi trovai catapultato a discutere della questione in uno studio RAI di Saxa Rubra.
Ma la “consacrazione” nell’autoreferente mondo catodico avvenne nel 2007, a seguito di un invito di Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni a Otto e mezzo. In quella occasione ebbi l’opportunità di discutere con Francesco Giavazzi di investimenti diretti esteri e declino industriale nazionale. Gianfranco La Grassa la definì spregiativamente una disputa “antitetico-polare”, nel senso di Lukacs. In seguito dichiarò di essersi ravveduto, ma col senno di poi ritengo che quella critica non fosse del tutto fuori luogo. Forse, proprio per questo, ad alcuni redattori il confronto tra me e Giavazzi dovette sembrare telegenico e da quel momento le mie comparsate in tv si fecero più frequenti.
Aveva senso quella sovraesposizione? chiesi lumi ad Augusto Graziani. Mi disse che finché mi chiamavano in tv dovevo starci, perché la critica della teoria e della politica economica non ha senso se resta confinata nella torre d’avorio dell’accademia, e se non viene in qualche misura resa popolare. Così andai avanti, pagando anche qualche scotto. Un giorno un illustre collega mi disse: “Per puro caso ho letto uno dei tuoi lavori accademici. Sei proprio bravo! Mica me lo aspettavo”. Chiesi il motivo di tanta diffidenza. E lui: “Perché ti vedo spesso in tv. Dici pure cose che condivido. Ma pensavo che se uno va in tv non può essere uno studioso serio”. Non aveva molto senso, ma devo ammettere che forse, a parti invertite, avrei coltivato un pregiudizio non dissimile.
Ieri, a distanza di un decennio dalla mia prima esperienza televisiva, sono stato ospite della trasmissione Piazza pulita. Seguivo il dibattito da un trespolo, conteggiando il numero di impunite castronerie che fuoriuscivano da quell’emiciclo di plastica e cartone. Mario Sechi, giornalista folgorato sulla via della lista Monti, ripeteva la solfa: ulteriori dosi di flessibilità, a suo avviso, aumenterebbero l’occupazione. Inutile ricordargli i dubbi dell’OCSE o le smentite del capo economista del FMI. A differenza di Ichino, infatti, Sechi non ha idea di quel che dice. E quindi non ha bisogno nemmeno di abbozzare una parziale rettifica. I tempi cambiano.
Naturalmente, Sechi è solo un nome dato a una cosa, peraltro situata al margine del problema: pur costituendo una funzione vitale per la riproduzione degli apparati ideologici, il giornalismo rappresenta una mera appendice dei medesimi. Una questione appena meno trascurabile riguarderebbe al limite il capo-partito Monti, secondo il quale “rendere il mercato del lavoro un po’ più flessibile giova all’occupazione”, e la flessibilità “rende gli imprenditori meno restii ad assumere più lavoro”. Difficile immaginare che qualche giornalista gli chieda lumi sulla non perfetta coincidenza tra queste sue convinzioni e le verifiche empiriche disponibili. Le appendici dell’apparato ideologico operano sia sul versante delle dichiarazioni che su quello delle omissioni, evidentemente.
Personalmente reputo il consiglio di Graziani ancora giustissimo. Ma la popolarizzazione di una analisi critica della realtà, nel senso storico-materialista dell’espressione, andrebbe oggi costruita sulle macerie di un trentennio, e dovrebbe quindi esser compito di collettivi dotati di un’organizzazione e di una disciplina all’altezza dell’enormità dello scopo. I grilli parlanti in questa tv, presi isolatamente, sono appena più che inutili.
Emiliano Brancaccio