Sistema monetario. Parla l’economista Emiliano Brancaccio
Il Denaro (allegato al Sole 24 Ore), 24 maggio 2014
Se a un certo punto diventasse indispensabile uscire dall’euro “bisognerebbe cautelarsi introducendo qualche vincolo alla libera circolazione dei capitali”. Ossia, almeno in parte, bisognerebbe mettere in discussione anche il mercato unico europeo. Invita a guardarsi bene dalle banalizzazioni delle due opposte “tifoserie”, gli ultras “anti-euro” e i pasdaran della moneta unica Emiliano Brancaccio, 43 anni, ricercatore e docente di economia politica presso l’Università del Sannio, uno dei pochi economisti ad avere anticipato la crisi dell’euro. Nel 2007, quando la parola “spread” non era ancora diventata di pubblico dominio, scrisse un articolo in cui annunciava la vendita in massa di titoli di stato italiani e l’aumento dei tassi di interesse: cioè gli avvenimenti che si sono effettivamente verificati nel 2011.
Per smontare quelli che definisce i “deliri” di chi vorrebbe l’Italia fuori dall’euro, l’economista Fabio Scacciavillani propone una domanda: “Se oggi venisse annunciato il referendum sul ritorno alla lira voi continuereste a tenere i vostri risparmi in una banca italiana rischiando di trovarli trasformati in carta straccia?” Che cosa ne pensa di un quesito di questo tipo?
L’attuale dibattito sull’euro mi sembra dominato dalle banalizzazioni di due opposte tifoserie, da un lato gli ultras anti-euro e dall’altro i pasadaran pro-euro. Negli slogan di questa seconda categoria credo possa rientrare anche quel quesito, che omette alcuni aspetti fondamentali del problema. In primo luogo, cosa si intende per “carta straccia”? Se parliamo di piccoli risparmiatori, il valore della loro ricchezza dovrebbe misurarsi in base all’andamento dei prezzi, non dei cambi. A questo riguardo, la storia ci dice che una svalutazione in sé non implica necessariamente una grande inflazione. Inoltre, il quesito sta forse ad intendere che dentro l’eurozona i risparmiatori sarebbero al riparo da eventuali dissesti bancari? Le vicende della Grecia, dell’Irlanda e della Spagna, i cui sistemi bancari sono stati già salvati per un pelo dalla bancarotta, dimostra che non è così. Inoltre, bisognerebbe ammettere che la famigerata unione bancaria europea è in realtà priva delle risorse necessarie per affrontare una eventuale, futura crisi bancaria. La verità è che nella crisi tremenda in cui ci troviamo i problemi per i risparmiatori possono presentarsi sia dentro che fuori dall’eurozona.
Chi oggi in Italia si batte per l’uscita dall’euro a tutti i costi sbandiera i supposti effetti salvifici della svalutazione, che si tradurrebbe in un rilancio di export e Pil. Le cose stano davvero così?
Negli anni scorsi la Germania ha attuato una ferrea politica di contenimento dei salari. Tra il 1999 e il 2013 la crescita delle retribuzioni, in Germania, è stata inferiore a quella media dell’eurozona di ben 16 punti percentuali. Questo è uno dei motivi per cui il costo unitario del lavoro delle merci tedesche è diminuito moltissimo rispetto al costo delle merci prodotte in Italia, o in Spagna. Se questi paesi uscissero dall’euro e svalutassero le loro monete avrebbero indubbiamente una leva in più per cercare di ridurre il divario di competitività che si è formato in questi anni rispetto alla Germania. Ma da qui a considerare l’arma della svalutazione come una panacea ce ne passa. Ad esempio, una cosa è una svalutazione secca ma controllata, magari ricorrendo anche a limitazioni dei movimenti di capitale. Tutt’altra cosa è lasciare che il valore della moneta sia continuamente lasciato fluttuare in base al libero gioco delle forze del mercato. Il rischio, in questo secondo caso, è che il valore della moneta sia sottoposto a oscillazioni troppo violente, causate da fenomeni speculativi.
Fuori dall’euro l’Italia crescerebbe di più? I numeri non dicono il contrario?
Dentro l’area euro la crisi è stata indubbiamente più pesante rispetto all’impatto che si è avuto al di fuori di essa. Tra il 2008 e il 2013 il crollo dell’occupazione nell’area euro è stato di circa un milione di unità più accentuato rispetto alla caduta, pur pesante, che si è registrata considerando anche i paesi europei che non adottano l’euro. Questo però non significa che l’uscita dall’euro, presa a sé stante, risolverebbe i problemi. La questione che va posta è: se si uscisse dall’unione monetaria quale politica economica sarebbe adottata? Si continuerebbe con l’austerity e con l’aumento della pressione fiscale? Si insisterebbe con le solite politiche di precarizzazione dei contratti di lavoro? Se non si mette in discussione l’impianto generale delle ricette che ci hanno portato a questo disastro dubito che l’abbandono dell’euro, in quanto tale, possa produrre risultati positivi.
Quanto è realistico, invece, lo scenario “catastrofico” del ritorno alla lira disegnato da Scacciavillani: governo incapace di pagare stipendi e fornitori nel giro di una settimana, imprese in bancarotta, importazioni di materie prime interrotte di colpo?
Mi sembrano semplificazioni che fanno il paio con quelle di chi sostiene che l’uscita sarebbe una passeggiata. La storia riporta casi di uscita caratterizzati da forte instabilità e casi invece in cui la situazione finanziaria si è rapidamente normalizzata. Ancora una volta dipende dalla politica economica che viene adottata. Inoltre, quando si parla di “imprese in bancarotta” a seguito dell’uscita dall’euro, per completezza d’analisi bisognerebbe accennare anche ai fallimenti che stiamo già registrando dentro l’eurozona: Credit Reform segnala che negli ultimi cinque anni si è verificato un aumento delle insolvenze delle imprese del 90 percento in Italia, del 120 percento in Irlanda e addirittura del 200 percento in Spagna.
La crisi degli spread sembra ormai alle spalle. Tuttavia, in un documento che Lei ha promosso, pubblicato sul Financial Times il 23 settembre scorso e sottoscritto da autorevoli economisti come Dani Rodrik e Alan Kirman, le previsioni sulla sostenibilità dell’area euro continuano a essere pessimistiche. Che cosa temete?
Ci limitiamo a segnalare che dal 2008, in Italia e negli altri paesi periferici dell’eurozona sono stati distrutti oltre sei milioni di posti di lavoro, mentre in Germania l’occupazione è aumentata di un milione e mezzo di unità. Si tratta di una divergenza che non ha precedenti dal secondo dopoguerra. Noi rileviamo che le politiche di austerity e le stesse politiche di flessibilità del mercato del lavoro non stanno contribuendo a ridurre quella forbice, ma per certi versi la stanno persino accentuando. E ritreniamo che proseguendo in questa direzione prima o poi l’Unione andrà a sbattere, volenti o nolenti.
Intervista di Antonella Autero
Intervista pubblicata su Il Denaro. La riproduzione è consentita citando la fonte.