L’Espresso online, 29 giugno 2015
Le istituzioni europee, il governo tedesco e i suoi alleati (Italia inclusa) hanno tirato la corda, avanzando una proposta ancor più stringente e sbilanciata a favore dei ceti ricchi.
di Emiliano Brancaccio e Mauro Gallegati *
Il fallimento della trattativa sul debito greco è stato causato soprattutto dal comportamento dei cosiddetti “creditori”, vale a dire le istituzioni europee, il Fondo monetario internazionale, il governo tedesco e i suoi principali alleati. Tra il 2010 e il 2014 i governi greci hanno applicato le ricette della Troika. La pressione fiscale è cresciuta di 5 punti percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di un quarto e i salari monetari sono caduti di 20 punti percentuali. Le conseguenze di questa politica sono state disastrose: la domanda, la produzione, l’occupazione e i redditi dei greci hanno fatto registrare un crollo senza precedenti in tempi di pace, il miglioramento del saldo estero è dipeso quasi esclusivamente dalla caduta delle importazioni e il rapporto tra debito pubblico e reddito nazionale è aumentato di 30 punti. L’applicazione della dottrina dell’austerity, dunque, ha affossato l’economia greca molto più di quanto le tolemaiche istituzioni europee e il FMI avessero previsto e non ha affatto contribuito a risanare i conti, come anni di evidenza empirica avevano dimostrato. Ciononostante, Alexis Tispras si era impegnato, pochi giorni fa, a restringere ulteriormente il disavanzo di bilancio pubblico e a ridurre la spesa per le pensioni. Svariati economisti avevano sollevato dubbi sulla sua bozza d’intesa, ritenendola in sostanziale continuità con la perniciosa logica dell’austerity e potenzialmente in grado di dar luogo a una nuova recessione. Promuovendola, Tispras oltretutto era ben consapevole di rischiare una frattura interna al suo partito e una perdita di consenso in Parlamento. Eppure le istituzioni europee, il FMI e il governo tedesco non hanno esitato a tirare ancora un po’ la corda: hanno respinto la proposta del governo greco e ne hanno avanzata un’altra, ancor più stringente e sbilanciata a favore dei ceti più ricchi del paese. A quel punto Tsipras ha ritenuto necessario dare nuovamente la parola agli elettori, rispondendo con l’indizione di un referendum. Alla luce di questa sequenza, se il 5 luglio il popolo greco respingerà la bozza dei “creditori”, le conseguenze saranno di fatto imputabili soprattutto a questi ultimi.
Dal lato dei “creditori” bisogna purtroppo annoverare anche il governo italiano. Al di là delle dichiarazioni di prammatica, la sostanza delle cose è che Matteo Renzi ha scelto di sedersi dalla loro parte. Pare che la giustificazione sia stata che l’Italia è creditrice netta verso la Grecia. Vero, ma a Palazzo Chigi sembrano dimenticare che il nostro paese è soprattutto debitore netto verso il resto dell’Europa e del mondo. Una visione più lungimirante avrebbe suggerito maggior sostegno alle posizioni dei greci.
Quali saranno le implicazioni del fallimento della trattativa sul debito greco? Noi non reputiamo plausibile la tesi di Francesco Giavazzi, secondo cui un default della Grecia e un’eventuale uscita del paese dall’euro costituirebbero un caso marginale e isolabile. La ricerca economica sulle crisi dei regimi di cambio mostra che eventi del genere tendono a propagarsi anche ad altri paesi, mettendo in discussione l’impianto generale degli accordi valutari. Certo, si può obiettare che l’Unione monetaria europea è dotata di un’architettura molto più robusta di un semplice regime valutario. In effetti, dopo il contestato spostamento del debito greco dalle banche private alle casse pubbliche degli stati membri e grazie agli interventi della Bce, può anche darsi che a breve termine l’eurozona riesca ad arginare l’effetto contagio di un default e di una eventuale uscita della Grecia dall’euro. Ma in prospettiva una Grexit minerebbe alla base la credibilità dell’Unione. In ambito politico l’opzione di uscita perderebbe il crisma dell’indicibile tabù e sui mercati finanziari comincerebbe a diffondersi l’opinione che la “promessa” di Draghi, secondo cui l’azione della Bce sarebbe stata sufficiente per salvare l’euro, in realtà costituiva un bluff. La letteratura economica evidenzia che non appena l’abbandono di un accordo valutario entri nel novero delle possibilità concrete dei decisori politici, la pressione degli speculatori può farsi insostenibile, soprattutto se la banca centrale è vincolata nel suo mandato e frenata da crescenti dispute interne. Come è il caso della Bce.
L’idea che la crisi della Grecia rappresenti un fenomeno circoscritto non trova dunque riscontri adeguati. Piuttosto, gli ultimi sviluppi della contesa tra Atene e Bruxelles sembrano avvalorare le previsioni del “monito degli economisti” pubblicato il 23 settembre 2013 sul Financial Times. In esso scrivevamo che proseguendo con le politiche di austerità e affidando il riequilibrio alla flessibilità del lavoro e alla connessa deflazione dei salari, “il destino dell’euro sarà segnato”. La moneta unica europea, almeno per come la conosciamo oggi, risulterà a lungo andare insostenibile, e lo stesso mercato unico europeo potrebbe subire ripercussioni. Se così davvero andasse, prendersela con la piccola Grecia sarebbe semplicemente patetico: un maldestro tentativo dei “creditori” di nascondere le loro responsabilità storiche.
Emiliano Brancaccio e Mauro Gallegati *
* Emiliano Brancaccio insegna Economia politica ed Economia internazionale presso l’Università del Sannio; è stato tra i promotori della “lettera degli economisti” (Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2010) e del “monito degli economisti” sulla crisi dell’eurozona (Financial Times, 23 settembre 2013). Mauro Gallegati insegna Economia politica presso l’Università Politecnica delle Marche; in collaborazione con il premio Nobel Joseph Stiglitz, ha pubblicato vari articoli su riviste accademiche internazionali.
(articolo pubblicato in apertura sul sito de l’Espresso il 29 giugno 2015. La riproduzione è consentita citando la fonte).