Su Oliver Williamson, fautore del “gigantismo”

L’economista Oliver Williamson è morto il 21 maggio 2020. Riporto qui un commento sul Nobel che ricevette nel 2009. Il testo è tratto dal libro Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica (di Emiliano Brancaccio con Giacomo Bracci, Il Saggiatore 2019).

[…] Williamson è un teorico dell’impresa particolarmente innovativo, che tuttavia è rimasto sempre con i piedi ben piantati nel filone tradizionale neoclassico fondato sull’ipotesi secondo cui gli agenti economici sono egoisti e razionali. […] Le ricerche di Williamson si concentrano sui motivi per i quali le imprese nascono e si espandono. L’idea di partenza è che in un ipotetico sistema di pura concorrenza, privo di imperfezioni e asimmetrie, non vi sarebbe alcun bisogno di costituire un’impresa: la produzione potrebbe avvenire attraverso contratti di volta in volta stipulati tra i vari agenti economici, siano essi capitalisti, manager o lavoratori. Come ha ironicamente affermato Paul Samuelson, in un simile fantasioso scenario «non avrebbe proprio nessuna importanza chi assume chi: al limite potremmo anche immaginare che il lavoro assuma il capitale». [1]

Se tuttavia si ammettono costi di transazione, incompletezza dei contratti e incertezza sul futuro, i meri scambi di mercato possono rivelarsi inadeguati alla risoluzione delle possibili controversie tra gli agenti. Ecco allora che sorge la necessità di costituire un’impresa, vale a dire una organizzazione basata non più sul libero scambio ma sulla gerarchia. Naturalmente, precisa Williamson, anche i rapporti gerarchici possono dar luogo a inefficienze, determinate da una gestione arbitraria delle risorse da parte di chi comanda. Tuttavia, ogni volta che i costi degli scambi risultino superiori ai costi derivanti dal controllo gerarchico, il rapporto di potere interno all’impresa tenderà a sostituirsi al rapporto di mercato tra soggetti formalmente indipendenti. Una spinosa implicazione di politica economica di questa visione è che anche le fusioni e le acquisizioni tra imprese dovrebbero esser considerate una conseguenza naturale dell’obiettivo di minimizzare i costi di transazione. La grande impresa, cioè, decide di fagocitare le altre anziché trattare con loro semplicemente perché mira a superare le incertezze e le inefficienze tipiche degli scambi di mercato.

Sulla base di questa teoria, Williamson è dunque giunto alla conclusione che le imprese di grandi dimensioni esistono perché sono efficienti, e possono quindi garantire un maggior benessere per tutti, capitalisti, lavoratori e consumatori. Egli in effetti ammette che i giganti del mercato possono esercitare pressioni lobbistiche per creare un contesto normativo favorevole a eliminare la concorrenza. A suo parere, tuttavia, tali «distorsioni» andrebbero semplicemente regolate, mentre bisognerebbe evitare un ritorno alle vecchie politiche anti-trust che imponevano limiti secchi alla crescita dimensionale delle corporations. [2]

Sebbene non vi sia unanime consenso sulla loro piena validità empirica, [3] gli studi di Williamson hanno indubbiamente contribuito a una più accurata comprensione dei processi di espansione delle imprese. […] Le analisi di Williamson sulle modalità di costituzione e crescita dimensionale delle imprese offrono spunti preziosi anche per l’indagine di fenomeni più ampi, come la tendenza verso la cosiddetta «centralizzazione dei capitali» originariamente studiata da Marx. Tuttavia, sembra criticabile l’idea che questi fenomeni siano governati da meri criteri microeconomici di scelta ottimizzante tra scambio di mercato e gerarchia interna alla struttura aziendale. Contributi provenienti dai filoni istituzionalista e marxista, anche da parte di studiosi italiani, hanno messo in evidenza che i meccanismi di formazione delle grandi corporations sono regolati dallo sviluppo storico dei rapporti sociali di produzione, ben al di là delle semplici analisi neoclassiche dei costi e dei benefici di singoli attori in scena. [4] Del resto, come la grande recessione internazionale ha evidenziato, l’ascesa di giganti «troppo grandi per fallire» è questione generale che attiene alla lotta di classe, al limite anche solo interna alla classe capitalista, ed è in quest’ottica più ampia che meriterebbe di essere approfondita. […]

 

[1] Paul Samuelson (1957), “Wage and interest: a modern dissection of Marxian economic models”, American Economic Review, 47.

[2] Questa almeno è l’interpretazione degli indirizzi di politica per la concorrenza di Williamson che ci viene offerta dai membri dell’Accademia delle scienze di Svezia (“Economic governance”, compiled by the Economic Sciences Prize Committe of the Royal Swedish Academy of Sciences), e che in effetti scaturisce dalla grande maggioranza dei contributi dell’economista premiato. Tuttavia, in un commento a caldo sull’assegnazione dei Nobel 2009, Robert Solow sembra aver suggerito una pressoché opposta chiave di lettura della vittoria di Williamson. Solow – a sua volta premiato nel 1987 – ha infatti dichiarato che “potremmo e dovremmo interpretare il lavoro di Ollie Williamson come un criterio per esaminare in che modo le grandi banche di investimento operano e come esse ci abbiano portato a quel che in retrospettiva sembra un comportamento molto stupido e rischioso” (intervista rilasciata a Janina Pfalzer e Rich Miller su Bloomberg). Resta da vedere se Williamson sia o meno d’accordo con questa peculiare interpretazione della sua opera.

[3] Il documento dell’Accademia delle scienze di Svezia sul Nobel 2009 fornisce numerosi riferimenti alle ricerche che sembrano confermare sul piano empirico le ipotesi di Williamson sulle determinanti dei processi di espansione e di integrazione verticale delle imprese. Non vi è tuttavia alcuna citazione delle pur numerose verifiche empiriche che sembrano fornire risultati più controversi, e che sembrano dunque aprire la strada ad interpretazioni teoriche alternative a quella di Williamson. Tra queste, si veda ad esempio Richard Carter e Geoffrey M. Hodgson (2006),”The impact of empirical tests on transaction costs economics on the debate on the nature of the firm”, Strategic Management Journal, 27.

[4] Diversi ordini di critiche di stampo istituzionalista o marxista sono state rivolte a Williamson e più in generale agli esponenti della New Institutional Economics. Tra i numerosissimi contributi, segnaliamo qui Ugo Pagano (2000), “Public markets, private orderings and corporate governance”, International Review of Law and Economics, 20, e Antonio Nicita e Ugo Pagano (2001), The evolution of economic diversity, Routledge, London. Si veda anche Daniel Ankarloo e Giulio Palermo (2004), “Anti-Williamson. A marxian critique of new institutional economics”, Cambridge Journal of Economics, 28.