Il Mattino, 23 giugno 2020
L’economista Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio sulla proposta di riduzione dell’IVA: “Per ragioni di equità meglio ridurla piuttosto che aumentarla. Ma per uscire dalla crisi non è la soluzione”. Sulla riforma del fisco: “Un tempo le aliquote erano 22, ora appena 5 e c’è chi vorrebbe scendere a un’unica flat tax. Questa tendenza favorisce solo i ricchi e non aiuta lo sviluppo. Piuttosto bisognerebbe rafforzare il principio costituzionale di progressività delle imposte, ma per farlo ci vorrebbe una lotta senza quartiere contro chi fa sparire i soldi nei paradisi fiscali, cioè l’esatto opposto dei condoni di Colao”. E sull’Europa: “il grosso dei finanziamenti non arriverà prima del 2023, mentre il Pil sta crollando adesso”. Come già scritto nell’appello sul Financial Times, l’unica cosa da fare è un piano moderno di investimenti pubblici, e per finanziarlo non c’è bisogno di tagliare l’assistenza sociale.
Intervista di Nando Santonastaso
Professor Brancaccio, si torna a parlare e a dividersi in sede politica sul taglio dell’Iva. Si può fare sperando di rilanciare i consumi? E con quali coperture?
L’IVA è definita dagli economisti un’imposta “regressiva” perché applica le stesse aliquote a tutti i consumatori, ricchi o poveri che siano, e quindi in percentuale favorisce i primi a danno dei secondi. Dunque, per ragioni di equità è sempre meglio ridurla piuttosto che aumentarla. Ma se lo scopo è riattivare lo sviluppo economico, allora la riduzione delle imposte non è mai la soluzione ideale. Molto più efficace sarebbe una ripresa degli investimenti pubblici.
Ma cosa vuol dire applicare il taglio dell’IVA ai pagamenti digitali?
L’IVA è l’imposta su cui si concentra la maggior parte dell’evasione fiscale, circa il 35 percento del totale, in parte favorita dall’uso del contante. Riducendo l’aliquota sui soli pagamenti elettronici si spera di disincentivare l’uso delle banconote. Francamente mi sembra un modo un po’ tortuoso di combattere l’evasione.
Sulla riduzione dell’IVA, Bankitalia ha espresso le sue perplessità. Ha ragione il governatore Visco a frenare?
Sul metodo Visco ha ragione: da troppi anni si interviene sul fisco con una pletora di misure scoordinate, imposta per imposta, mentre ci vorrebbe una riforma complessiva di sistema. Ovviamente c’è riforma e riforma.
E per una riforma generale del fisco Lei da dove partirebbe?
Da un contrasto più serrato all’evasione e dal rafforzamento del principio costituzionale di progressività delle imposte: chi guadagna di più deve pagare aliquote più alte, una regola semplice ed equa che da decenni è sotto attacco. Mentre negli anni ’70 esistevano ben 22 aliquote di imposta sul reddito con la più alta al 72 percento, oggi abbiamo appena 5 aliquote con la più alta al 43 percento. E c’è chi vorrebbe andare persino oltre, introducendo una flat tax unica per tutti, ricchi o poveri che siano. Questa tendenza è sbagliata, favorisce solo i percettori di redditi più alti e non aiuta lo sviluppo. Bisognerebbe tornare a un sistema con più aliquote, a carico soprattutto di rendite e profitti. Ovviamente per far questo occorrerebbe in primo luogo intraprendere una lotta contro chi fa sparire i soldi nei paradisi fiscali.
Dopo gli Stati generali si ha la sensazione che non esista ancora una visione su come rilanciare il Paese. Alla fine ci salverà l’Europa?
Da Villa Pamphilj non è uscito nessun piano organico, per lo più si è discusso di ricette già sperimentate e sbagliate, come gli incentivi sui contratti a termine e i condoni sull’esportazione illegale di capitali all’estero o sul lavoro nero. Ma se in Italia navighiamo ancora nel buio, non mi pare che in Europa si veda la luce. Come ha mostrato l’influente Istituto Bruegel, se anche gli stanziamenti del “recovery fund” saranno approvati senza tagli, nel 2020 non vedremo nemmeno un euro, nel 2021 riceveremo appena l’8 percento delle risorse e nel 2022 un restante 14 percento. Questo significa che più di tre quarti dei finanziamenti europei non arriveranno prima del 2023. Considerato che il Pil sta cadendo adesso, a una velocità mai vista nella storia del capitalismo, il ritardo nella risposta di politica economica è spaventoso.
In un appello pubblicato sul Financial Times, lei e altri economisti avete sostenuto l’urgenza di un piano di investimenti pubblici per uscire dalla crisi. Ma come segnalato da varie parti, nel Decreto rilancio del governo proprio gli investimenti scarseggiano. Può un Paese già zavorrato dal debito pubblico concentrarsi soprattutto su misure di assistenza come quelle varate finora?
Come pure Mario Draghi ha riconosciuto, l’aumento del debito pubblico sarà inevitabile, in Italia e non solo, e per lungo tempo sarà compito delle banche centrali governare i mercati per garantire la sua sostenibilità. In questa espansione generalizzata dei debiti statali, sarebbe logico destinare la parte principale dei finanziamenti verso un moderno piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture materiali e immateriali, nella ricerca scientifica e tecnica, nell’istruzione, nel recupero delle periferie. Del resto questa operazione si potrebbe compiere senza tagli all’assistenza sociale. Come ormai persino il Fondo Monetario Internazionale ammette, se viene bene indirizzato l’investimento pubblico finanziato con debito si ripaga da solo, tramite un maggior sviluppo dell’occupazione e del reddito. E’ una lezione keynesiana minima, di buon senso, di certo non sufficiente ma più che mai valida in questa catastrofe.