Il Mattino, 17 novembre 2020
Il lavoro si disperde mentre il capitale si centralizza. Intervista a Emiliano Brancaccio in occasione dell’uscita del suo nuovo libro: “Non sarà un pranzo di gala”, edito da Meltemi.
Dall’inizio della pandemia, circa 45000 addetti lavorano al Sud in “smart working” per le grandi imprese del Centro-Nord, una cifra che potrebbe superare le centomila unità considerando anche le piccole imprese. Tratto da una ricerca Svimez, il dato è un altro dei segni di stravolgimento del mondo del lavoro causati dalla pandemia. Di questa e delle altre rivoluzioni in corso nella geografia del lavoro discutiamo con l’economista Emiliano Brancaccio, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro edito da Meltemi: “Non sarà un pranzo di gala”, con i testi dei suoi celebri dibattiti con Monti, Prodi, Blanchard e altri, e con varie sezioni dedicate ai grandi problemi dell’economia nell’era covid.
Professor Brancaccio, nel suo ultimo libro lei sostiene che la sfida della pandemia si può vincere solo con un recupero, in chiave moderna, del grande tema della pianificazione collettiva. In che senso?
Il covid-19 dovrebbe indurre una riflessione critica sugli effetti negativi della lunga stagione di privatizzazioni ed esternalizzazioni che in Italia e in gran parte del mondo ha determinato un grave svuotamento di risorse e di capacità d’azione degli apparati statali. Il settore sanitario è un esempio emblematico. Le difficoltà nel tracciamento dei contagi, i problemi di approvvigionamento di materiale medico, la carenza di terapie intensive attrezzate, fino all’assenza di un coordinamento nella ricerca scientifica contro il virus, testimoniano un evidente vuoto di pianificazione pubblica. Rimediare a questa terribile lacuna è indispensabile per elaborare una risposta adeguata alla catastrofe in corso.
Nel suo libro lei discute anche dei sommovimenti che il covid sta causando nei processi lavorativi. Tra le grandi trasformazioni in corso possiamo includere lo smart working, che sta allontanando i lavoratori dalle sedi aziendali?
Si, senza dubbio. Oltretutto, mentre la localizzazione fisica del lavoro tende a diradarsi con lo smart working, al contrario i dati indicano che il capitale tende a concentrarsi in sempre meno mani, con manipoli sempre più ristretti di proprietari che controllano quote sempre più grandi di pacchetti azionari. Il lavoro che si dirada mentre il capitale si concentra è un’altra delle enormi contraddizioni di questa fase, che bisogna assolutamente governare.
Un esempio di allontanamento dalle sedi di lavoro è il “south working”, che nel nostro paese sembra prendere sempre più piede. Non crede che si stiano sottovalutando le incognite di questo ritorno nei luoghi di origine, anche rinunciando a una parte dello stipendio?
Il telelavoro è una grande rivoluzione tecnologica, che può aiutare a fronteggiare la pandemia e più in generale può ridurre i costi di trasporto e migliorare le condizioni di vita di tante persone. Ma come tutte le grandi innovazioni tecnologiche c’è il rischio di abusarne e di far danno. Il luogo di lavoro resta uno spazio fisico fondamentale, in cui si sviluppa l’esperienza, la socialità e anche la forza contrattuale dei lavoratori. Bisogna vigilare affinché l’esodo verso il Sud non crei una classe lavoratrice considerata di “serie B”, proprio perché distanziata dalle sedi fisiche delle aziende.
A suo avviso il “south working” rischia anche di dare fiato a chi, come il presidente di Confindustria Bonomi, teorizza salari legati alla produttività territoriale e dunque più bassi al Sud?
La via indicata Bonomi è miope, perché guarda al salario solo come un costo e non come pure una fonte di spesa. Nel mio libro ricordo che già molte crisi del passato sono state affrontate a colpi di “deflazione”, cioè di gare salariali al ribasso tra i territori e tra i paesi. Gli effetti di questa strategia deflazionista sono stati devastanti, perché hanno depresso ulteriormente l’economia. Occorre impedire che il “south working”, e tutte le altre novità di questa fase, diventino dei pretesti per dare inizio ai ribassi salariali.
Nel libro lei insiste sul fatto che questa crisi sta aggravando le disuguaglianze sociali e territoriali. Nell’azione di governo lei vede misure in grado di bloccare queste divaricazioni?
Purtroppo no, ma questo è un limite che non riguarda solo il nostro paese. Con la seconda ondata dei contagi stiamo seriamente rischiando una “doppia depressione” internazionale, un fenomeno inedito nella storia del capitalismo. Affrontare una catastrofe di questa portata con un po’ di sussidi e di politica keynesiana, magari illudendosi che le forze del mercato risolvano tutto il resto, significherà lasciare che la forbice sociale e territoriale si apra ulteriormente, a una velocità senza precedenti.
(intervista di Nando Santonastaso)