Marchionne non è né “buono” né “cattivo”: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Se non si mette in discussione la piena apertura dei mercati non vi saranno le condizioni per un rilancio del movimento dei lavoratori
(pubblicato su Liberazione del 9 settembre 2010)
La globalizzazione dei mercati abbatte la forza rivendicativa, politica e sindacale, dei lavoratori. Numerosi studi del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, della Commissione Europea, segnalano da tempo l’esistenza di una correlazione statistica tra l’apertura di un paese ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente declino degli indici di protezione dei lavoratori, della quota salari sul reddito nazionale e dei livelli di protezione sociale. I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione. Tuttavia, quando si attraversa una crisi, la piena apertura dei mercati può condurre a una vera e propria capitolazione delle rappresentanze del lavoro, e a un conseguente, precipitoso declino delle tutele normative e sindacali e della quota di prodotto sociale destinato ai lavoratori.
Queste statistiche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana. Consideriamo ad esempio il caso FIAT e le sue ripercussioni su Federmeccanica e sul contratto nazionale. Marchionne rammenta ai media che può ottenere a Detroit o in Serbia un valore del prodotto per ora di lavoro decisamente maggiore rispetto ai più modesti rendimenti degli impianti di Pomigliano o di Mirafiori (il differenziale, si badi, è reale: esso non dipende dal grado di utilizzo della capacità ma al contrario lo determina). Per questo motivo egli si dichiara pronto a spostare le unità produttive all’estero a meno che in Italia non si affermi un nuovo modello di relazioni industriali, fondato sul recesso dai contratti nazionali, sulla eliminazione delle ultime sacche di resistenza sindacale e sulla conseguente possibilità di imprimere una forte accelerazione al prodotto per unità di lavoro. La FIAT detta in questo modo la linea alla quale il padronato italiano si accoda senza indugio: minacciare continuamente le delocalizzazioni per liquidare gli ultimi scampoli di movimento operaio esistenti nel nostro paese.
Ovviamente la libertà di movimento dei capitali non colpisce solo il sindacato italiano. Essa scuote le relazioni industriali in moltissimi paesi, siano essi avanzati o in via di sviluppo. Tale libertà oltretutto agisce sia sui salari diretti che sul welfare. Basti pensare agli effetti dell’apertura dei mercati sulla concorrenza fiscale tra paesi, e sulla conseguente crisi di finanziamento dello stato sociale. Questo tipo di concorrenza non viene praticata dai soli paradisi fiscali. Molti paesi ricchi la sostengono apertamente: per evitare le fughe di capitale all’estero si elargiscono sussidi alle imprese e sgravi ai possessori di ingenti ricchezze, e si recupera poi tramite i consueti tagli alla spesa pubblica.
I dati ci dicono insomma che siamo al cospetto di un dumping salariale e fiscale senza limiti, che da tempo alimenta una guerra mondiale tra lavoratori e che ha trovato nella crisi uno spaventoso fattore di accelerazione. E’ bene chiarire che si tratta di un dumping trasversale, che mette in competizione gli stessi paesi avanzati tra loro e che non può essere sintetizzato nella sola corsa al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi poveri. Il caso tedesco è in questo senso emblematico. La minaccia di trasferire interi spezzoni di produzione all’estero ha contribuito a rendere la Germania un motore del dumping salariale europeo, con un divario tra produttività del lavoro e retribuzioni tra i più alti del mondo. Inoltre va ricordato che i sussidi del governo federale americano e l’abbattimento del costo del lavoro in Chrysler hanno fortemente contribuito allo spostamento dell’asse strategico di FIAT verso gli Stati Uniti. Ciò indica che il dumping salariale e fiscale può partire anche dal paese più ricco del mondo.
Di fronte a tali evidenze è curioso che soltanto il movimento di Seattle, pur tra mille contraddizioni e ingenuità, si sia posto in questi anni il problema di trarre un abbozzo di critica della globalizzazione. Al contrario tra gli eredi della tradizione del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico. Dopo il crollo dell’URSS questa posizione ha caratterizzato in Europa soprattutto i socialisti, ma ha pure interessato frange della sinistra alternativa, delle aree di movimento e degli stessi partiti comunisti. Questa palese sudditanza verso l’apertura globale dei mercati genera un ritardo a sinistra che si rischia oggi di pagar caro. La crisi economica mondiale ha infatti scatenato un conflitto intercapitalistico tra liberoscambisti e protezionisti che durerà a lungo e che è destinato a mutare profondamente il corso degli eventi. Di questo scontro si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti, estraniati dal dibattito. Ancora una volta la vicenda FIAT appare sintomatica. Alcuni intellettuali e politici hanno etichettato Marchionne come “cattivo manager”, che investe poco e punta solo ad abbattere il costo del lavoro. C’è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse sono superficiali. In un certo senso potremmo considerarle simmetriche all’affrettato elogio del “capitalista buono” che gli veniva rivolto non moltissimo tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché gli sarà concesso, egli minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove i profitti sono maggiori. Considerato che Berlusconi dichiara che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione» e che nessuna forza politica ha finora provato a ribattere su questo punto decisivo, è lecito prevedere che Marchionne e il padronato avranno gioco facile a qualsiasi tavolo delle trattative.
Esiste un modo per colmare il ritardo delle sinistre? È possibile individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di vista del lavoro sullo scontro in atto tra liberoscambisti e protezionisti? L’idea di condizionare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard del lavoro” è una delle opzioni possibili. Ma prima di approfondire le questioni tecniche, occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, difficilmente si verranno a creare le condizioni per un effettivo rilancio del movimento dei lavoratori.
Emiliano Brancaccio