Left – 4 novembre 2011
INTERVISTA A EMILIANO BRANCACCIO
di Manuele Bonaccorsi
Siamo a un passo dal baratro: la recessione, la fine dell’euro e forse persino il default dell’Italia. Secondo Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’università del Sannio, tra i più noti esponenti del pensiero economico “critico”, occorre capire se in Germania i favorevoli all’euro prevarranno su chi vorrebbe ormai sbarazzarsi della moneta unica. E bisogna pure valutare il ruolo dei partiti socialisti europei, i quali si stanno rendendo conto della situazione e hanno avanzato proposte di riforma che vanno nella giusta direzione. Ma il rischio è che si stiano muovendo in ritardo.
Brancaccio, Berlusconi risponde alle sollecitazioni dell’Ue sostenendo che la libertà di licenziamento è una via per la crescita. È vero?
No. Le ricerche dell’ultimo decennio ci dicono che la precarizzazione del lavoro non riduce la disoccupazione e non fa crescere la produttività. Inoltre, agevolando i licenziamenti nei periodi di crisi, la flessibilità aggrava le recessioni. E’ vero peraltro che rendere i contratti ancora più precari indebolisce i lavoratori e può favorire la riduzione dei salari. Secondo alcuni economisti questo potrebbe accrescere la competitività dell’Italia. Il problema è che questa strada l’abbiamo già praticata, dagli anni ’90, provocando una compressione salariale senza precedenti. Ciò nonostante la nostra posizione competitiva non è migliorata, anzi il disavanzo commerciale si è accentuato. È una politica fallimentare. Che non risolve le contraddizioni alla base della crisi, ma le amplia.
Per quale motivo?
Perché lo stesso fenomeno è avvenuto in tutta Europa. In particolare in Germania, dove nell’ultimo decennio i salari reali sono rimasti al palo, nonostante un forte aumento della produttività. Se il Paese leader dell’Ue insiste con una politica restrittiva e di competizione salariale, gli squilibri strutturali della zona euro sono destinati ad accentuarsi. In questo modo, infatti, la Germania contiene le importazioni, accresce le esportazioni e aumenta il suo surplus verso l’estero. Di conseguenza, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e la stessa Francia aumentano i loro deficit verso l’estero. La politica restrittiva e competitiva del Paese leader genera dunque uno squilibrio insostenibile. È questo il principale tallone d’Achille dell’Europa, che accresce i famigerati “spreads” più dei debiti pubblici.
Si dice pure che la crescita economica in Italia potrebbe derivare dalla privatizzazione di aziende pubbliche. Che ne pensa?
Ricordiamoci che negli anni ‘90 l’Italia ha realizzato il record mondiale delle privatizzazioni, dopo il Regno Unito. Oggi sappiamo che le privatizzazioni non sempre determinano un incremento di efficienza, e spesso producono un aumento dei prezzi. L’azienda privatizzata licenzia per aumentare la produttività, ma tiene alti i prezzi per garantire il profitto agli azionisti. Inoltre, immaginare di privatizzare oggi, con valori del capitale così bassi, significa soltanto fare un favore a una cricca di speculatori.
Insomma, le così dette riforme strutturali, le scelte impopolari richieste dell’Europa, non aiuteranno la crescita.
La lettera di Berlusconi è conforme all’indirizzo restrittivo che si è imposto in Europa e che ci fa piombare in una tipica “deflazione da debiti”: cioè, i Paesi debitori sono indotti a ridurre le spese per tentare di rimborsare i loro debiti, ma così facendo deprimono la domanda di merci e quindi riducono la produzione, l’occupazione e i redditi. Per cui le entrate fiscali scendono, e diventa ancor più difficile rimborsare i debiti. Ciò alimenta a sua volta la speculazione. Il caso greco è emblematico e noi ci stiamo incamminando nella stessa direzione.
Il Fondo Salva stati, strutturato nel recente vertice di Bruxelles, può rappresentare una riposta?
Il Fondo Salva stati è macchinoso e ha poche munizioni. Non è in grado di contrastare la speculazione. La salvezza per ora può giungere solo dalla Bce, la quale può creare la massa monetaria che vuole e fermare la speculazione. Se lo vuole.
Chi è contrario a interventi più massicci della Bce?
La Germania in Europa ha l’ultima parola sulla Bce. Ma Berlino non ha ancora deciso se difendere la zona euro o farla deflagrare. Da un lato, i defalut e le svalutazioni che seguirebbero alla fine dell’euro darebbero molti problemi alle banche e alle imprese tedesche. Ma dall’altro lato, la svalutazione delle monete nei Paesi periferici ridurrebbe anche il valore dei capitali di quei Paesi, e ciò consentirebbe alle imprese tedesche dotate di liquidità di acquisire a buon mercato aziende private e pezzi di patrimonio pubblico in Grecia, Italia, Spagna, Portogallo. Del resto, una cosa simile è già accaduta dopo il 1992, con la svalutazione della lira. Forse, per convincere i tedeschi, bisognerebbe dire con chiarezza che se salta in aria la moneta unica, potrebbe saltare anche il mercato unico: ossia, i Paesi periferici potrebbero a un certo punto limitare la libera circolazione di capitali e merci. Questa in effetti sarebbe una grave minaccia per la Germania, e potrebbe smuoverla dal suo dilemma.
La Germania dice di essere disposta a fare la sua parte. A conto però che gli altri, l’Italia in primis, riducano il loro debito pubblico.
E’ uno scaricabarile. Dobbiamo metterci in testa che l’unico modo per uscire dalla crisi dell’euro è attivare un “motore interno”. Serve cioè una politica economica coordinata a livello europeo, una pianificazione degli investimenti pubblici per sviluppare la domanda e orientare la produzione. Inoltre abbiamo bisogno di meccanismi di riequilibrio, che impongano ai Paesi in surplus verso l’estero di aumentare la spesa e le importazioni. Le soluzioni sono numerose. Personalmente ho suggerito uno “standard retributivo europeo”, che impedirebbe alla Germania di insistere con la competizione salariale al ribasso. La proposta è stata inserita nel programma di riforme del Pd, pubblicato ad aprile. E’ già qualcosa.
Come giudica le controproposte dei socialisti europei sulla crisi? Dopo anni di ubriacatura neoliberista, stanno facendosi spazio posizioni molto diverse.
Sia pure con estrema lentezza, i partiti eredi del movimento operaio stanno rivedendo in chiave critica le posizioni del passato. In Italia, l’attuale segreteria del Pd è impegnata nel tentativo di costruire una nuova piattaforma, condivisa tra i socialisti europei. È la strada giusta. Purtroppo i tedeschi della Spd non hanno ancora espresso una posizione netta sul futuro dell’Europa. Tuttavia la base di consenso della Spd potrebbe avere più di un motivo, ad esempio, per sostenere uno “standard retributivo” che rilanci i salari tedeschi. Il punto da comprendere è che la salvezza dell’euro e la tutela dei lavoratori sono obiettivi non contrastanti ma coincidenti. Partendo da questa consapevolezza si potrebbe creare un blocco sociale ampio, che sia in grado di spingere nella direzione delle riforme per lo sviluppo e per il riequilibrio dell’Unione. Ma bisogna aggiungere che siamo chiaramente in ritardo. La speculazione approfitta dell’incertezza dei governi e delle autorità europee e si intensifica. Se la politica non accelera, l’attuale zona euro non sopravviverà.