di Emiliano Brancaccio
(Pubblico, 12 novembre 2012)
In un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 6 novembre, Luigi Zingales ha prospettato per il Giappone un destino infausto, addirittura paragonabile a quello della Grecia. L’economista dell’Università di Chicago parte dall’osservazione che il debito e il deficit pubblico giapponesi hanno raggiunto livelli particolarmente elevati, a seguito di massicci acquisti di titoli da parte della banca centrale finanziati con ripetute emissioni di moneta. Zingales ritiene che questa politica sia insostenibile: presto o tardi le iniezioni di moneta scateneranno una spirale di inflazione e svalutazione che diffonderà la sfiducia tra i creditori internazionali e metterà quindi il Giappone in una situazione di difficoltà analoga a quella in cui oggi versano la Grecia e gli altri paesi del Sud Europa. Per questo, egli conclude, chi oggi vorrebbe dalla Banca centrale europea una politica monetaria analoga a quella giapponese farà bene a ripensarci.
L’argomentazione di Zingales è suggestiva ma fuorviante: in particolare, l’analogia tra il Giappone da un lato e la Grecia e il Sud Europa dall’altro appare a dir poco forzata. Il motivo principale è che il Giappone si situa da lunghissimo tempo in una posizione di avanzo delle partite correnti verso l’estero.
Nell’ultimo decennio il surplus annuale estero giapponese non è mai andato al di sotto dei due punti percentuali, toccando picchi prossimi ai cinque punti. Sul piano macroeconomico si tratta di una posizione invidiabile. Il surplus verso l’estero indica infatti che il Giappone ha molti più debitori internazionali che creditori. Inoltre lo stesso surplus segnala che, nonostante le massicce emissioni di moneta da parte della banca centrale, lo yen in futuro potrebbe apprezzarsi anziché deprezzarsi. E’ probabile che siano questi i motivi per cui gli operatori finanziari continuano a investire in Giappone, pur nello stupore di Zingales. Ciò ovviamente non esclude nuove crisi nel paese del Sol levante. Ma se questo manterrà la sua posizione di avanzo verso l’estero, le cause di eventuali tracolli futuri non saranno quelle evocate dall’economista di Chicago.
Ben diversa è la situazione in cui si trovano la Grecia e i paesi del mezzogiorno europeo. Da quando è entrata nell’euro, Atene ha segnato disavanzi correnti annuali elevatissimi, fino a quattordici punti percentuali di Pil. Anche la Spagna e il Portogallo hanno fatto registrare ingenti deficit verso l’estero, in alcuni anni persino oltre i dieci punti percentuali. La stessa Italia da oltre un decennio segna solo passivi nei conti esteri. Per fortuna il nostro disavanzo risulta più modesto, ma è preoccupante la sua persistenza in un periodo in cui la risibile crescita media del reddito nazionale avrebbe dovuto frenare le nostre importazioni.
La morale di tutto ciò è che non ha alcun senso giudicare la sostenibilità del bilancio pubblico di un paese senza esaminare la situazione dell’attivo o del passivo totale verso l’estero, non solo pubblico ma anche privato. Ecco perché la situazione della Grecia e del Sud Europa è molto più grave rispetto a quella del Giappone. I disavanzi esteri dei paesi meridionali dell’Unione indicano che se questi a un certo punto fossero costretti ad abbandonare l’euro le loro valute tenderebbero in misura più o meno accentuata a deprezzarsi. Come è stato riconosciuto da ricerche autorevoli e dalla stessa Bankitalia, sta proprio nel timore di una svalutazione la ragione prevalente della sfiducia dei creditori e la conseguente difficoltà di ridurre gli spread sui titoli di questi paesi. Il quadro appare dunque per certi versi ribaltato rispetto a quello delineato da Zingales: in Europa è solo grazie agli acquisti di titoli da parte della banca centrale che possiamo tenere a bada gli spread. Senza gli interventi della Bce, i tassi d’interesse sarebbero già esplosi a livelli insostenibili per la tenuta della zona euro. Zingales però obietta che le espansioni monetarie conducono all’aumento della domanda di merci, quindi alla crescita dei prezzi e infine alla svalutazione. Ma è cosa ben nota che specialmente in fasi prolungate di crisi, con bassa domanda e capacità produttive ampiamente sottoutilizzate, l’idea che l’espansione monetaria abbia di per sé effetti sui prezzi e sul tasso di cambio non trova riscontri adeguati, né da un punto di vista teorico né da quello empirico. Il problema, allora, pare un altro. Esso verte sul fatto che l’azione della Bce risulta per il momento troppo limitata, e soprattutto isolata, per risultare sufficiente. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha più volte insistito su questo punto: se si vuol davvero salvare l’eurozona occorre che la politica monetaria sia affiancata da una politica fiscale coordinata, che veda finalmente coinvolti anche i paesi in surplus verso l’estero. La Germania, in particolare, dovrebbe contribuire al riequilibrio delle partite correnti tramite politiche di espansione della domanda e quindi delle importazioni. Senza l’attiva collaborazione della Germania e degli altri paesi in avanzo verso l’estero la sopravvivenza della moneta unica non sarà affatto garantita, indipendentemente da quel che Draghi deciderà di fare. Più che cercare improbabili analogie con il Giappone, forse è di questo che dovremmo urgentemente preoccuparci.
Emiliano Brancaccio
Articolo apparso sul quotidiano Pubblico del 12 novembre 2012. La riproduzione è consentita citando la fonte.