il manifesto, 27 febbraio 2014
Per impostare correttamente una discussione sulla crisi dell’eurozona sarebbe utile preliminarmente sgombrare il campo dagli errori e dalle falsificazioni provenienti sia dal fronte dei pasdaran pro-euro che da quello degli ultras anti-euro. Riporto qui pochi esempi, tra i tanti possibili.
I difensori dell’eurozona a oltranza talvolta affermano che una deflagrazione della moneta unica determinerebbe una catastrofe economica talmente violenta da condurre l’intera Europa sull’orlo di un conflitto bellico. La loro tesi è che l’Unione economica e monetaria rappresenti una condizione necessaria per garantire la pace tra i popoli europei. Chiunque si azzardi a evocare la possibilità di un’uscita dall’euro viene quindi immediatamente considerato un avventuriero irresponsabile, potenzialmente un guerrafondaio. In verità i supporters pro-euro non forniscono chiare evidenze a sostegno dei loro anatemi. La tesi secondo cui le unioni economiche e monetarie – e più in generale il liberoscambismo – garantirebbero la pace tra le nazioni, non trova adeguati riscontri storici. Basti ricordare che nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, sussisteva piena libertà di circolazione internazionale dei capitali e vigeva il gold standard, un rigido sistema di cambi fissi molto simile all’euro. Inoltre, come segnalato dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times lo scorso 23 settembre, l’attuale crisi dell’eurozona presenta analogie con la fase storica successiva alla ratifica del Trattato di Versailles del 1919, che costrinse la Germania ad adottare tremende politiche di deflazione nel vano tentativo di pagare i debiti e le riparazioni di guerra. Il tracollo che ne seguì creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e per il secondo conflitto mondiale. Stando dunque all’evidenza storica non sembra esservi relazione tra permanenza nell’euro e mantenimento della pace. Anzi, una disamina non frettolosa degli eventi passati suggerisce che gli strenui apologeti della zona euro “in nome della pace” farebbero bene a considerare la possibilità che un terreno favorevole alla reazione soverchiante del nazionalismo più retrivo e xenofobo, e al limite del bellicismo tra nazioni, lo stiano preparando proprio loro.
Allo stato attuale le infondate opinioni dei pasdaran dell’euro risultano preponderanti nel dibattito politico. Tuttavia anche i sostenitori dell’uscita dall’euro commettono spesso errori e omissioni. Alcuni di essi, per esempio, glissano su un altro aspetto cruciale sottolineato dal “monito degli economisti”: esistono modalità alternative di gestione di una eventuale uscita dall’euro, ognuna delle quali avrebbe ricadute molto diverse sui diversi gruppi sociali coinvolti. Una prova di ciò sta nel fatto che in questa fase sta guadagnando consensi quella che personalmente ho definito una modalità “gattopardesca” di gestione della crisi, in base alla quale si sarebbe disposti a cambiare tutto, persino la moneta unica, pur di non cambiare in fondo nulla, ossia pur di non mettere in discussione le politiche liberiste, liberoscambiste e di austerity di questi anni, nonostante le sperequazioni e i tracolli occupazionali che hanno provocato.
Il fatto che l’oltranzismo pro-euro sia diffuso soprattutto tra gli eredi del movimento operaio novecentesco implica automaticamente che una uscita “gattopardesca” dalla moneta unica sia oggi l’eventualità più probabile. Si tratta di un cortocircuito funesto, ed è difficile dire ci si sia ancora tempo e modo per cercare di spezzarlo.
Emiliano Brancaccio