Il Sannio, Giovedì 22 maggio 2014
di Enza Nunziato
La Scuola Normale Superiore nasce ufficialmente a Pisa nel 1810 per decreto napoleonico, sul modello dell’École Normale Supérieure di Parigi. In due secoli di vita la Normale si è affermata come uno dei centri di formazione e di ricerca tra i più rinomati d’Europa. Tramite un selettivo concorso di ammissione, la Scuola rende accessibile ai giovani più meritevoli una formazione e un ambiente di ricerca ai massimi livelli. Tra gli ex-allievi si annovera una concentrazione senza eguali di scienziati, scrittori, politici, economisti, uomini di cultura che hanno fatto la storia del nostro Paese, dal matematico Vito Volterra, al premio Nobel per la letteratura Giosué Carducci, ai premi Nobel per la fisica Enrico Fermi e Carlo Rubbia, al presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Oggi, presso la Normale, nella sede prestigiosa del palazzo della Carovana realizzato dal Vasari, si tiene un interessante seminario dal titolo “Quale Europa? Lo stato dell’Unione tra crisi, mercato e democrazia”. All’evento, assieme al giurista Claudio De Fiores, è stato invitato Emiliano Brancaccio, ricercatore e docente di Economia politica presso l’Università del Sannio.
Emiliano Brancaccio, classe 1971, è uno degli economisti italiani più attivi nel dibattito di politica economica europea. Ha pubblicato articoli su numerose riviste accademiche internazionali, tra cui il Cambridge Journal of Economics. Ha collaborato con varie riviste e quotidiani nazionali, tra cui Limes e Il Sole 24 Ore. Ed è stato promotore del “monito degli economisti” contro le politiche europee di austerity, pubblicato lo scorso settembre sul Financial Times e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica internazionale, tra cui Dani Rodrik e Alan Kirman.
La relazione di Brancaccio parte dalla tesi centrale del “monito degli economisti”: le politiche europee di austerity e le stesse riforme del mercato del lavoro non stanno contribuendo a ridurre i divari tra paesi forti e paesi deboli dell’eurozona ma per certi versi li stanno accentuando. Di questo passo, conclude il “monito”, prima o poi ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro. In effetti i dati confermano questa tendenza. Nell’eurozona stiamo assistendo a divergenze senza precedenti in epoca di pace. Negli ultimi cinque anni la Germania ha conseguito una crescita del Pil di quasi tre punti percentuali, a fronte di una caduta superiore ai sette punti in Italia. Inoltre, smentendo le previsioni del governo italiano, giovedì scorso Eurostat ha confermato il trend: confrontando il Pil del primo trimestre 2014 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, si rileva che la produzione in Germania continua a crescere, mentre in Italia continua a cadere.
La cosa grave, nota Brancaccio, è che le istituzioni europee continuano a sottostimare il fenomeno, commettendo imbarazzanti errori di previsione. La Commissione europea, per esempio, nel 2012 aveva previsto che il Pil italiano sarebbe cresciuto di 1,3 punti percentuali a fine anno. Il risultato reale fu una caduta di 2,4. Nel 2013 l’errore fu ripetuto. La previsione di una crescita di 0,4 punti fu seccamente smentita da un’altra caduta di 1,8 punti percentuali.
Da queste evidenze Brancaccio trae una posizione articolata, complessa. Egli non aderisce né al partito degli euroentusiasti né a quello degli antieuro. Il suo scopo è di portare la discussione sul terreno della verifica empirica, dell’analisi scientifica, per criticare le semplificazioni di entrambe le fazioni in campo. Per esempio, prendiamo le opinioni prevalenti sugli effetti di una eventuale uscita dall’euro. In particolare, consideriamo i possibili effetti sul potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. Su questo tema, alcuni economisti molto in voga nel dibattito italiano hanno sostenuto che l’impatto sul potere d’acquisto delle retribuzioni sarebbe pressoché trascurabile. Al contrario, il presidente della BCE Mario Draghi qualche tempo fa sostenne che “i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione”. Stando alla previsione di Draghi, dunque, l’uscita dall’euro potrebbe provocare una pesante caduta del potere d’acquisto dei salari.
Quale di queste visioni contrapposte trova conferme nei dati? In una indagine realizzata in collaborazione con la collega Nadia Garbellini dell’Università di Bergamo, Brancaccio esamina i casi di uscita da aree valutarie che si sono verificati nell’arco di oltre un trentennio, a partire dal 1980. Dai 28 episodi individuati emerge un quadro complesso.
In primo luogo, il pericolo di una “grande inflazione” evocato da Draghi non trova riscontri adeguati. Considerando tutti i paesi esaminati, nell’anno dell’uscita dalle aree valutarie l’inflazione aumenta di 14 punti percentuali, una cifra indubbiamente considerevole. Tuttavia, eliminando dall’analisi i paesi meno sviluppati e guardando solo i paesi ad alto reddito, la crescita dell’inflazione nell’anno dell’uscita è decisamente più contenuta: poco più di due punti percentuali. Dunque, almeno per quanto riguarda l’Italia e i paesi relativamente più ricchi, lo spauracchio più volte evocato secondo cui lasciando l’euro saremmo costretti a far la spesa con una carriola piena di soldi svalutati, non trova conferme nell’evidenza storica.
D’altro canto, la ricerca di Brancaccio rivela che anche un aumento relativamente modesto dell’inflazione può comunque portare riduzioni importanti dei salari reali. In particolare, nei paesi ad alto reddito il salario reale cade di 4 punti nell’anno dell’uscita dall’area valutaria. Solo dopo cinque anni il salario recupera il suo potere d’acquisto. Il risultato entra dunque in contrasto con le idee di coloro secondo cui non ci dovremmo preoccupare troppo degli effetti salariali di una eventuale uscita dall’euro.
L’analisi di Brancaccio e Garbellini sottolinea però anche un altro aspetto. I costi di un eventuale abbandono della moneta unica dovrebbero essere confrontati con i costi che già si sostengono all’interno dell’eurozona. Basti notare che dal 2009 stiamo assistendo a riduzioni salariali che in alcuni paesi dell’Unione hanno già raggiunto dimensioni importanti: in cinque anni il potere d’acquisto dei salari diminuisce del 2,2 percento in Italia, del 3,8 in Portogallo, del 3,9 in Irlanda, del 5,4 in Spagna e sono crollati del 22 percento in Grecia.
Brancaccio infine chiarisce che la politica di riduzione dei salari in atto non riduce, ma addirittura aumenta le probabilità di deflagrazione dell’eurozona. La sua tesi è simile a quella del premio Nobel Paul Krugman: la riduzione dei salari può ridurre i redditi rispetto ai debiti e quindi può rendere più difficili i rimborsi dei prestiti. Il caso della Grecia è emblematico. Il crollo del potere d’acquisto dei salari, superiore al 20 percento in cinque anni, ha depresso la produzione e il reddito e non ha aiutato a ridurre il debito pubblico di quel paese ma lo ha addirittura fatto aumentare.
La lezione che si trae dalla relazione è chiara. Sulla questione dell’euro, le tesi delle fazioni contrapposte semplificano e per molti versi falsificano la realtà. Una analisi accurata dei dati storici e degli andamenti recenti ci dice che la corsa al ribasso dei salari non favorisce la ripresa economica e quindi non può salvare l’eurozona. E che occorre prepararsi se si vuole evitare che il costo di una eventuale uscita ricada ancora una volta sui soliti noti.