economiaepolitica.it, 11 ottobre 2016
Il Nobel 2016 per l’economia va a Oliver Hart e Bengt Holmström, per i loro contributi alla teoria dei contratti. Ma per uscire dalla crisi la ricerca di “ottimali” negoziazioni di mercato tra privati non basta: occorre un “market maker” pubblico.
di Emiliano Brancaccio
Oliver Hart, nato nel 1948 a Londra e docente ad Harvard, e Bengt Holmström, nato nel 1949 ad Helsinki e docente al MIT di Boston, sono i vincitori del premio Nobel 2016 per l’economia. I due studiosi sono stati premiati dall’Accademia svedese delle scienze “per i loro contributi alla teoria dei contratti”, quel campo della ricerca economica che studia le determinanti delle diverse forme contrattuali e i modi in cui la stipula di un contratto possa condurre a risultati più o meno ottimali, per le parti e per la collettività nel suo complesso [1].
Un tipico problema analizzato dalla teoria dei contratti è quello che si pone quando il mandante di un determinato incarico non sia in grado di verificare con precisione se e in che misura il mandatario si impegni ad assolverlo. Ossia la prestazione dell’agente, come si dice in gergo, non è direttamente osservabile da chi lo abbia assunto. Questa circostanza si definisce “asimmetria informativa” ed è frequente in moltissimi rapporti contrattuali, come ad esempio quelli tra azionisti e manager di un’impresa. Considerato che l’attività del manager è difficilmente osservabile, in che modo gli azionisti possono indurlo a impegnarsi per massimizzare i loro profitti? Una soluzione contrattuale potrebbe consistere nel collegare la remunerazione del manager all’andamento dei prezzi delle azioni dell’impresa: se i prezzi salgono la paga sale, e viceversa. A Wall Street questo sistema è utilizzato spesso, ma presenta un serio inconveniente: dato che i prezzi azionari sono ampiamente influenzati da fattori indipendenti dal comportamento del manager, la sua paga finirà per dipendere dalla sua fortuna molto più che dalla sua abilità. Nel 1979 Holmstrom suggerì un possibile rimedio: per ridurre l’influenza del caso il manager potrebbe esser pagato sulla base del rapporto tra i prezzi azionari dell’impresa che egli guida e i prezzi di imprese simili che non siano sotto il suo controllo [2]. In seguito, assieme ad altri colleghi, l’economista finlandese ha proposto varianti sempre più complesse di questa soluzione. La realtà, tuttavia, sembra situarsi sempre un passo avanti rispetto alle architetture contrattuali suggerite dalla teoria. Basti pensare a una circostanza di cui molto si è discusso dopo la crisi finanziaria del 2008: quella in cui gli stessi manager intervengono sul mercato allo scopo di gonfiare il valore delle azioni d’impresa così da accrescere la loro paga. In casi del genere il criterio di Holmstrom non aiuta: anzi, il rapporto tra il prezzo dell’impresa e i prezzi di imprese simili costituisce una misura non tanto dell’impegno del manager quanto piuttosto del suo azzardo.
Il problema dell’osservazione della performance della controparte non è tuttavia l’unico affrontato dalla teoria dei contratti. Una questione ancor più rilevante è quella che riguarda i cosiddetti “contratti incompleti”, vale a dire quelle situazioni in cui le parti non sono in grado di definire in dettaglio tutti i termini contrattuali. Oliver Hart, in collaborazione con Grossman e Moore, ha sostenuto che un contratto, sebbene incompleto, dovrebbe chiarire almeno chi abbia il diritto di decidere nel caso in cui emerga una controversia tra le parti. L’assegnazione di tale diritto è cruciale, poiché essa stabilirà quale delle parti abbia incentivo a impegnarsi e ad investire nell’attività e quale invece sia disincentivata [3]. Un contributo di ricerca, in questo senso, è consistito nel definire un criterio efficiente di assegnazione dei diritti di proprietà del capitale lungo una determinata filiera produttiva. Si pensi ad esempio a un’attività innovativa che richieda l’uso di macchine e che debba poi avvalersi di un canale distributivo. Nelle mani di chi dovrà concentrarsi la proprietà di queste tre attività? La risposta è che l’intera proprietà andrebbe assegnata all’innovatore, ossia al soggetto che svolge il compito più difficile da inquadrare dettagliatamente all’interno di un contratto. E’ a lui che occorre assegnare il reddito netto della filiera, perché solo in tal modo si può sperare che l’attività innovativa, pur in assenza di vincoli contrattuali, sia realizzata nel modo più efficiente. Seguendo questo ragionamento, dunque, in generale la proprietà dovrebbe essere assegnata a chi dispone di competenze difficilmente negoziabili. Da questa linea di pensiero è scaturito il cosiddetto “nuovo approccio ai diritti di proprietà”, un filone di ricerca che ha goduto di notevole seguito. Non tutti però hanno condiviso in pieno questa impostazione. E’ stato osservato, ad esempio, che soprattutto nel campo della proprietà intellettuale possono attivarsi dei processi cumulativi poco piacevoli: che si tratti di singole imprese o di interi paesi, i soggetti maggiormente dotati di diritti di proprietà intellettuale tenderanno a sviluppare ulteriori abilità nella produzione di diritti di proprietà intellettuale, mentre chi non dispone di tali diritti sarà anche disincentivato a produrne, con conseguenti divergenze tra ricchi e poveri persino più gravi rispetto a quelle causate dai divari nelle dotazioni di capitale fisico. In altre parole, l’assegnazione del diritto influisce sulla maggiore o minore crescita della capacità di innovare, rendendo il problema dell’allocazione ottimale della proprietà ancor più complesso di quanto la teoria prevalente induca a ritenere [4].
L’assegnazione dei diritti di proprietà, per Hart, può rappresentare anche un criterio razionale per tracciare il confine economico tra pubblico e privato. L’intervento statale, a suo avviso, non è in grado di garantire una gestione efficiente proprio perché esso esclude una precisa assegnazione delle proprietà e dei connessi diritti di decisione. Per questo motivo, può esser conveniente estendere l’azione del privato ad ambiti tradizionalmente di competenza dello stato, come la gestione degli ospedali, delle scuole e persino delle prigioni [5]. Per fortuna, anche per Hart l’estensione della mano privata ha un limite. Quando l’operatore privato sia incentivato a investire soprattutto nell’abbattimento dei costi anziché nell’incremento della qualità, è opportuno che lo Stato faccia un passo avanti e lo sostituisca. Un esempio increscioso, citato dall’Accademia svedese delle scienze, è offerto dalle carceri che negli Stati Uniti sono oggi possedute e gestite da privati. A causa tra l’altro di una sistematica tendenza a tagliare i costi, esse versano in un degrado tale che dovrebbe costituire un motivo di ripensamento anche per il più accanito dei liberisti.
La strenua ricerca di meccanismi negoziali in grado di risolvere le asimmetrie di informazione o l’incompletezza dei contratti potrebbe essere interpretata, in fin dei conti, come un continuo esercizio intellettuale teso a preservare la libertà dei privati di negoziare e ad evitare il ricorso all’intervento statale. In effetti non mancano casi in cui, in termini più o meno espliciti, i vincitori del Nobel 2016 per l’economia hanno rivelato simili orientamenti ideologici. Anche per loro, tuttavia, la grande crisi del 2008 ha rappresentato una sorta di spartiacque, che sembra avere fortemente ridimensionato la loro fiducia nell’efficienza relativa dei meccanismi negoziali tra privati. In una recente relazione per la Banca dei regolamenti internazionali, Holmstrom è giunto a diffidare di quelle soluzioni anti-crisi che si basino su mere invocazioni alla trasparenza del mercato [6]. L’idea che i privati debbano conoscere con precisione le posizioni finanziarie delle controparti che abbiano emesso titoli, in alcuni casi potrebbe dar luogo a un aggravamento della crisi anziché a un recupero della fiducia. Nella medesima ottica Holmstrom ha invece elogiato la celebre frase di Mario Draghi: “faremo tutto ciò che è necessario per preservare l’euro e, credetemi, sarà sufficiente”, proprio per la sua estrema opacità. Per l’economista finlandese, l’indefinitezza di quella dichiarazione ha impedito che gli operatori privati facessero troppi calcoli sulla sostenibilità dell’impegno del banchiere centrale a difendere l’euro, e ha consentito di creare intorno alla moneta unica una convergenza di vedute fondata su una “simmetrica ignoranza” tra tutte le parti. Nel difendere una chiave di lettura così spregiudicata Holmstrom non ha esitato a citare Machiavelli. In effetti, a ben guardare, questa sua è una concezione della politica monetaria molto poco convenzionale, e molto prossima alle visioni eterodosse del banchiere centrale come “market maker”, una sorta di moderno principe del mercato.
Naturalmente, nessuno ritiene che la sola opacità del banchiere centrale consenta di salvaguardarci da nuove crisi. Entrambi i premi Nobel sostengono, al contrario, che per affrontare le future turbolenze c’è bisogno di interventi ben più ampi, e per certi versi eretici. E’ interessante citare, a questo riguardo, un recente contributo di Hart e Zingales in tema di crisi bancarie [7]. La tesi dei due autori è che presso le banche tendono a concentrarsi le attività finanziarie di quei soggetti che hanno maggiori esigenze di liquidità. Per questo motivo una crisi bancaria è diversa da ogni altra crisi, poiché sottrae liquidità proprio ai soggetti che ne hanno più bisogno, e quindi inevitabilmente determina una propagazione dei suoi effetti e un connesso crollo della domanda aggregata. Un intervento statale deve pertanto ritenersi inesorabile e urgente, per ricapitalizzare le banche in difficoltà, per salvaguardare i depositanti da eventuali perdite e per rilanciare la domanda. Questa soluzione viene oggi con un certo imbarazzo sostenuta persino da coloro che qualche anno fa, in nome del libero mercato, plaudirono improvvidamente al fallimento di Lehman Brothers. Si tratta però di una soluzione scomoda, che denuda la finanza privata rivelando il suo estremo bisogno, nei momenti di crisi, di ricorrere ai salvataggi statali. Ogni volta che si compie un passo lungo questa via politica, diventa sempre più difficile placare le voci di popolo contro l’andazzo “della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite”.
[1] Committee for the Prize in Economic Sciences in Memory of Alfred Nobel (2016). Oliver Hart and Bengt Holmstrom: Contract Theory. Cfr. anche: Royal Swedish Academy of Sciences (2016). The Prize in Economic Sciences: popular science background.
[2] Holmstrom B. (1979). Moral Hazard and Observability, Bell Journal of Economics, 10.
[3] Grossman, S., O. Hart (1983a): An Analysis of the Principal-Agent Problem, Econometrica, 51. Hart, O., J. Moore (1990): Property Rights and the Nature of the Firm, Journal of Political Economy, 98.
[4] Pagano U., M.A. Rossi (2004). Incomplete Contracts, Intellectual Property and Institutional Complementarities, European Journal of Law and Economics, 18.
[5] Hart, O., A. Shleifer, and R. Vishny (1997): The Proper Scope of Government: Theory and an Application to Prisons, Quarterly Journal of Economics, 112.
[6] Holmstrom, B. (2015). Understanding the role of debt in the financial system, BIS Working Papers, 479.
[7] Hart, O., L. Zingales (2014). Banks are where the liquidity is, NBER Working paper n. 20207.
Pubblicato su economiaepolitica.it l’11 ottobre 2016. La riproduzione è consentita citando la fonte originaria.